Una illegalità lunga 10 anni e 730 chilometri

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Oggi, 9 luglio 2014,  sono dieci anni da quando  la Corte Internazionale di Giustizia ha sancito che il muro costruito da Israele in terra di Palestina è illegale.

Sono dieci anni ed il muro è sempre lì, in tutti i suoi 730 Km di lunghezza.

Anche la Corte suprema di Israele il 15 settembre 2005 dichiarò che una parte (almeno) del muro costituisce costruzione illegale e già prima, il 30 giugno 2004, aveva ordinato di modificarne   il tracciato. Ma il Governo israeliano ha disatteso l’ordine e ignorato la sentenza. Sino ad oggi.

Siamo di fronte ad un caso più unico che raro, di uno Stato che nega se stesso, le proprie leggi ed i propri organi. E  che viola sistematicamente   svariate norme del  Diritto Internazionale  e della Carta dei Diritti Umani, senza  che né l’ONU, né la comunità internazionale degli Stati reagiscano in qualche modo. E’ come se per Israele la legislazione internazionale e nazionale fossero sospese

Questa è una di quelle volte in cui  la   realtà supera la fantasia fino a divenire  inverosimile.

Interrogarsi sul perché  Israele goda di questa impunità totale deve essere o  eccessivamente arduo oppure  banalissimo se, pur dandosene l’occasione   ogni giorno, anzi più volte al giorno, non pare che il tema  sia in cima   agli interessi degli osservatori politici più accreditati.

Il tema è di grande interesse ovviamente per   i palestinesi che   subiscono le conseguenze di tale impunità  e quindi anche di chi ne ha sposato la causa. Piuttosto, però, che tentare di addentrarsi nel groviglio dei motivi della connivenza degli Stati e della complicità dei Governi, sulle quali    può incidere, alla lunga, solo l’opinione pubblica, vale la pena di chiedersi il perché dell’acquiescenza di quest’ultima.

Certamente dipende dalla parziale, quando non  alterata, rappresentazione di quanto è accaduto ed accade in Medio Oriente ed in particolare in Palestina, riportata dai grandi mezzi di informazione, da un lato suggerita da un’accorta ed intelligente azione di “marketing territoriale” svolta dal Governo Israeliano e dall’altro ispirata dagli stessi Governi degli Stati occidentali per coprire  la propria complicità. Ma non credo che basti. Azzardo un’ipotesi che mi sembra   plausibile: l’inconscio collettivo delle società occidentali  è gravato  dal senso di colpa nei confronti degli ebrei, formatosi a seguito della presa di coscienza della persecuzione di cui questa popolazione da sempre vissuta mischiata ad altri popoli  è stata vittima. L’orrore delle leggi razziali e la   mostruosità della Shoa che ne è seguita stanno lì, nel profondo, non ancora metabolizzate; condizionano il senso comune, impediscono una considerazione equilibrata dello scenario israelo-palestinese,  soffocano ogni impulso di reazione. Ha perciò buon gioco la propaganda del governo israeliano, nell’accreditare come vera una falsa  equazione, secondo cui antisionismo e antisemitismo coincidono, da cui   fa derivare che qualsiasi critica, per quanto circostanziata, delle  politiche israeliane vengano ricondotte nella categoria dell’antiebraismo. A tale equazione  si accoppia   un’altra arma anche più micidiale, quella che Moni Ovadia chiama  l’israelizzazione della Shoah, costituendo con essa un prisma malato che rifrange in maniera strumentale e distorta le idee, impedendo a monte l’ordine del discorso. Da qui la passività delle opinioni pubbliche quando non l’orientamento avverso ai palestinesi.

La distorsione delle idee e l’alterazione del significato delle parole non grava solo sul senso comune delle società occidentali;  non ha deleteri effetti solo sulle condizioni di vita del popolo palestinese,  ma genera una spirale perversa nella stessa società israeliana, nella sua cultura e mentalità e imprime impulsi regressivi alla stessa politica.  Esempi allarmanti di ciò che può generare  li si è avuti in questi giorni, con la crudeltà dell’uccisione a Gerusalemme  di un ragazzo palestinese arso vivo dopo avergli fatto ingerire della benzina perché le fiamme lo avvolgessero anche dall’interno e con la logica delle vendetta con cui a livello governativo si è decisa la “punizione collettiva” della popolazione palestinese per la morte dei tre ragazzi israeliani, senza che nemmeno siano stati identificati gli autori del crimine. Ancora una volta si prova che la degenerazione della politica israeliana sta recando oltraggio allo stesso ebraismo. La Legge del Taglione  infatti – occhio per occhio, dente per dente – non dava  stimolo alla vendetta ma in epoche dai costumi feroci, nelle quali ci si cibava degli organi del nemico ucciso per acquisirne la forza e le virtù, poneva un limite alla rivalsa: a chi ti ha privato di un occhio non puoi portarne via due.

Correggere il prisma malato,  ridare  cioè senso alle  idee  e significato giusto alle  parole  serve per recuperare capacità di giudizio all’opinione pubblica, inquadrare nella giusta luce la resistenza del Popolo Palestinese, ma può giovare alla stessa società israeliana per liberarsi dalla sindrome della persecuzione e dell’assedio, che costituisce un ostacolo non da poco sul cammino di una pace giusta.

E’ sul terreno delle idee, che vanno rimesse in ordine con cautela e delicatezza, su quello delle parole, che vanno scelte con cura,  in altri termini ridando vigore al discernimento che, a mio avviso, si gioca una partita decisiva per la soluzione della contraddizione israelo-palstinese che è alla base del conflitto asimmetrico tra uno Stato ed un Popolo.

L’augurio che formulo  nel decimo anniversario della sentenza della Corte internazionale di Giustizia   è che le idee abbiano ragione sulla forza e che tutte le commemorazioni di questo decennale siano così orientate.


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