“Frost-Nixon”. Memorabile sfida tra giornalismo e potere

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Spettacolo conclusivo del Teatro Argentina di Roma- Già portato sugli schermi da Ron Howard nel 2008      

Gli accadimenti hanno luogo dopo il “pasticciaccio brutto” del Watergate e delle forzate dimissioni dalla Presidenza statunitense. Pur se resta inevasa, drammaturgicamente e storicamente inesplicata (salvo accontentarsi dei parametri maniacali, persecutori, di labilità recondita cui dava credito il “Nixon” di Oliver Stone) la concreta domanda del “perché” il leader politico più odiato in America, dopo Bush jr, sentisse la necessità tattico-ossessiva  di infiltrare “pulci”, microfonini, orecchi di Dionisio nella sede del Partito democratico alla luce di un declino politico che già si profilava irreversibile, quasi infamante. Autolesionismo? Infantilismo politico? Delirio di onnipotenza o improbabili dossier di cui servirsi in futuro, in sede di memoriale?

D’altronde, né il famoso film di Ron Howard (giunto in Italia nel 2008), né il testo teatrale da cui fu dedotto (scritto da Peter Morgan, di scena all’Argentina di Roma a conclusione del cartellone ‘invernale’) possono dare secca risposta, e nemmeno suggerire una “oggettività” di trame, ragnatele, secret-service che, del resto, erano già state ipotetiche tessere segnaletiche in vari titoli di  Sidney Pollack, di Alan Pakula (da “I tre giorni del Condor” a “Tutti gli uomini del Presidente”).

Opere nella quali la nera ombra della Cia fungeva da motore e vettore-impenetrabile, inespugnabile- di un’ “azione”, di un “genere”  (fantapolitico, per convenzione) che, pur rimandando all’ipostasi di un Potere corrotto e corruttore, obbiettava ma nulla (di nuovo) rivelava sulle contagiose derive d’ogni “orgia” autocratica. La storiografia ufficiale, anzi, ‘assolve’  e continua a  riabilitare  Nixon sulla base della empirica, ‘revisionistica’  constatazione di alcuni (suoi? per obtorto collo?) meriti postumi: l’avere avviato il ritorno in patria del corpo di spedizione in Vietnam; il perseguimento di  una politica di distensione con l’Urss; l’incontro con  Mao Tse-tung e l’inizio di una politica relazionale nei riguardi di Pechino.

La fine è nota.

Terrorizzato dall’ impeachment – del quale, e caratterialmente, non avvertiva il rischio, anzi sussidiato da isterismi privati e freudiane manie di persecuzione – Richard Nixon   rassegnò alle dimissioni nella estate del 1974, usufruendo di una amnistia  (‘ad personam’ anche allora)  rattoppatagli dal successore Ford.

La pièce teatrale, così come il film (che molto ci intrigò) si collocano a tre anni di distanza dalle dimissioni forzose, allorché, allettato da un’offerta di 600 mila dollari, Nixon accetta di rilasciare un’intervista televisiva a David Frost, anchorman di  mondane frequentazioni, diverse vocazioni professionali, ma sicuro del proprio fatto a tal punto da auto-prodursi mettendo a repentaglio il suo futuro di play boy salottiero e vezzeggiato cronista rosa (in sala qualcuno sentivo sussurrare un paragone, non improprio, con l’italico Massimo Giletti).

I fatti – come sappiamo- daranno  ragione all’ astuta ragnatela di  Frost   capace di domande sinuose, viperine, impeccabile nel suo lavorare ai fianchi l’interlocutore. Il quale, e a sua volta, appare come sedotto, conquistato, impreziosito da un graduale,  plausibile transfert che lo consegna semi-arrendevole alla “seduzione” dell’ intervistatore: cui offre  Elio De Capitani (impassibile, ma titanico, lo stesso che si  ‘inventò’ il ruolo di Berlusconi in “Il camaleonte” di Nanni Moretti) offre il meglio delle sue capacità seduttive, camaleontiche, da avvezzo anfitrione o aspirante (deluso) ‘uomo di mondo’. Come se, nella ragnatela azzardata ma implacabile dell’ indagatore forbito ed avvezzo (‘indossato’ dall’ottimo Ferdinando Bruni con cipiglio frivolo-narcisista), l’ex patriarca della Casa Bianca ritrovasse una sorta di nuova ragion d’essere:  fantasiosa, badiale, pura nemesi per interposta persona: quattro sere di celebrità “coatta”, insincera, e pur sempre all’agognato epicentro d’una perduta identità  subissata dalla pessima reputazione che gli si impresse in corpo come la mancanza di simpatia ‘riscossa’ dal popolo americano. Ulteriormente offuscata da irascibilità, insicurezze, irrisolti complessi d’inferiorità riscattati in tracotanza ed estorti sorrisi a forma di ghigno.

Concepito come una sorta di duello privato che -per forza di cose- non potrà che essere di pubblico dominio, “Frost\Nixon” (in questa esaustiva, rapida edizione prodotta dal milanese Teatro dell’Elfo, come all’interno di un set televisivo simile a  un distretto da ‘sesto grado’)   sfoggia risvolti umani, pragmatismi e cinici decisionismi  che derivano, in crescendo, da una sapiente, sedimentata scrittura drammaturgica.  La quale, in una perfetta parabola di prolusione-acme- arresa (come in un gioco fra gatto e topo),   tocca le molte corde  -coinvolgenti- di una docu-fiction che ha le   impeccabili cadenze di una sfida western: uomo contro uomo, senza esclusione di colpi. Salvo il  supplemento (ornamentale, banalizzante) di un fair play conclusivo, di un ‘onore delle armi’ che David, giovane vincente, concede a Richard , avversario anziano e senza catarsi.

Viene infine  da riflettere (bizzarrie semiologiche?) su quanto  le potenzialità dell’immagine ‘dal vivo’ oppure riprodotta, dialogata- nella micidiale  amplificazione del dettaglio televisivo, cui la scena non lesina qualche riferimento- diventino essenziali per la comparativa riflessione sui  diversi ma contigui linguaggi (telecamera, obbiettivo cinematografico, ritaglio di luci sceniche)  donde  scaturisce la (pilotata) opinione pubblica.  Ritualità- feticcia  di un’ emotività  sottile e sofisticata in cui realtà e la finzione, essenziali alla magia del teatro, inquinano enigmi e ‘territori’ del destino planetario in cui –come ben rifletteva Enzo Natta a proposito del film – “l’ imitazione del reale si spinge sino ad una  sorta di rappresentazione  tout-cort che finisce col dimostrarsi più vera del vero”. E sottilmente beffarda,inesorabile: a futura memoria

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“Frost\ Nixon”  
di Peter Morgan, traduzione di Lucio De Capitani.
Uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani.
Con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Luca Toracca, Nicola Stravalaci, Alejandro Bruni Ocaña, Andrea Germani, Matteo De Mojana, Claudia Coli. Luci di Nando Frigerio, Suono di Giuseppe Marzoli.,
Co-produzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile dell’Umbria,
con il contributo di Fondazione Cariplo. Al Teatro Argentina di Roma


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