L’Ordine che vorrei

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L’ordine dei giornalisti che vorrei oggi non esiste. E la colpa è anche nostra. Dal 1963, anno della legge istitutiva, quasi nulla è cambiato. Sono decenni che sentiamo parlare di Riforma, di modifiche necessarie, di aggiornamento; ci abbiamo riprovato a fine gennaio come consiglieri nazionali e ancora una volta, a mio avviso, abbiamo fallito. Non voglio riproporvi la cronaca di quei tre giorni, molti la conoscono già, voglio provare a riflettere ad alta voce con la speranza di sollecitare un dibattito sulla nostra professione, sui mutamenti e sulle reali necessità.
Cosa vogliamo dal nostro Ordine professionale? Serve ancora un Albo che tuteli i diritti e controlli i doveri di tutti gli iscritti? Chi è oggi un “giornalista”? Chi fa esclusivamente questo lavoro o anche chi deve necessariamente arrotondare per arrivare a fine mese? E a cosa serve quella che più volte abbiamo definito la “nostra casa” se è incapace di includere i più deboli?  È ancora utile la divisione in professionisti e pubblicisti? Esistono giornalisti di serie A e B? Oggi uno dei punti critici, oltre al mercato del lavoro sempre più drammaticamente contratto, è proprio l’accesso alla professione. L’Ordine che vorrei dovrebbe garantire un accesso unico: università pubbliche e private, formazione, esame di idoneità. Includere giovani escludendo, una volta per tutte, gli editori soprattutto dal controllo del tesserificio. Siamo travolti da giovani colleghi che sono impossibilitati ad iniziare un praticantato, se non frequentando corsi o scuole costose e selettive; conviviamo con chi, sempre più spesso, è costretto a lavorare in nero o a tre euro al giorno per avere, dopo due anni di collaborazione, un tesserino ottenuto sotto ricatto.
Includere vuol anche dire avere la forza di pulire gli albi: giornalista è chi lo fa, per scrivere una tantum basta l’articolo  21 della nostra Costituzione.
Questa forte richiesta di cambiamento non arriva soltanto dalle redazioni dei giornali, dai colleghi precari, ci è stata sollecitata anche dal Parlamento. Il Paese è in piena fase di trasformazione politica mentre noi siamo fermi, come in una vecchia fotografia in bianco e nero, leggermente sbiadita. Una di quelle che ti piace tenere nella scatola ma che sai che prima o poi, senza restauro, non racconterà più nulla, sparirà per sempre. È questo il rischio che corriamo. È questo il rischio a cui ci siamo esposti nel dibattito prima della votazione finale sulla Riforma. Ora non serve parlare di colpe, di errori, ora bisogna trovare soluzioni. Sono convinta che a due settimane da quel voto, in molti hanno valutato le loro scelte. Una maggioranza c’è stata, è vero, troppo risicata per rappresentare una categoria che conta migliaia di iscritti. Due soli voti in più e sei astenuti hanno sancito la spaccatura a metà del Consiglio. Chi inconsapevolmente ha pensato ai propri interessi ha fatto un grande errore di valutazione, ha distrutto un percorso e aperto la strada a chi in Parlamento è pronto a votare per l’abrogazione del nostro Ordine pleonastico e destinato purtroppo a scomparire. Siamo stati eletti in 144 più i colleghi del Consiglio di Disciplina. I numeri ci aiutano a capire quanto lavoro c’è da fare e quanto è in salita la strada da percorrere: gli avvocati hanno 26 consiglieri, 21 i commercialisti, 23 i notai.
Forse anche questo ennesimo passaggio era necessario per capire quanto sia importante trovare un obiettivo comune, coraggioso, innovativo, un obiettivo che non può non essere ampiamente condiviso. La sfida è mettere da parte ideologie e orticelli e puntare al dialogo. Sulle macerie si può solamente costruire.


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