Il Nemico Pubblico. Quando l’Arte racconta la vita del carcere

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Se l’arte contemporanea è anche una lente di ingrandimento che mette a fuoco le distorsioni del presente, quando entra oltre le sbarre del carcere, con le sue illuminazioni diventa testimonianza di smarrimento esistenziale. Uno sguardo dissacrante che scala gli alti muri di cinta fuori dai quali il mondo esterno si immagina al sicuro, separato da quello destabilizzante dei reati e delle pene. Un’immaginazione libera per raccontare gli abissi, dove le parole perdono senso e non pronunciarle può sancire la salvezza, per dilatare il non-spazio e misurare il non-tempo. Un tentativo di fissare con tensione emotiva quel microcosmo di vite perdute, intrecciate di solitudini e promiscuità per coglierne le speranze disattese e i desideri soffocati, sparpagliati e immiseriti lungo i labirinti dei corridoi sbarrati da cancelli insuperabili.

Più della cronaca, su ciò che avviene “dentro”, con il carico di violenza, sovraffollamento, suicidi e disperazione, sono le parole di Dostoevskij a farci riflettere: “Il grado di civiltà della società si misura dalle proprie prigioni”. Mentre in Italia scorre il film infinito sulle nuove misure detentive (dopo la condanna di Strasburgo), volte a superare i confini angusti del castigo e della pena per intraprendere la via della responsabilità e del reinserimento sociale, in Francia gli artisti si affidano alla concretezza delle loro visioni.

“Era da molto tempo che pensavo di realizzare una mostra sulle prigioni”, ci dice Barbara Polla, scrittrice e gallerista d’arte a Ginevra e Parigi, “da sempre questa tematica è stata al centro della mia emozione politica, la mia prima ribellione contro l’assurdità  di ciò che gli uomini fanno agli altri  uomini. Sogno l’arrivo di un nuovo Basaglia che possa aprire quelle porte, così come lui ha fatto per i manicomi in Italia”. Così è nato il progetto sull’ “Ennemi Public”, con una  prima mostra alla galleria parigina di Magda Danysz, spazio affacciato sulla strada, ma “con delle sbarre a tutte le finestre, sulle quali sono state posti vasi pieni di fiori bianchi come omaggio a Jean Genet”. E poi, conferenze, performance, video, la pubblicazione del libro “L’Ennemi Public” (La Muetteed.) scritto insieme a Paul Ardenne con il contributo di artisti di fama mondiale, legati tra di loro dall’idea  “dell’arte come sollecitazione e azione politica” e dal comune desiderio di coniugare estetica ed etica. ”Sono artisti in costante lotta, non con un Public Enemy, ma con i loro nemici interiori”, spiega Barbara Polla, che vivono pienamente  sia le assonanze  fra immaginazione e realtà sia le dissonanze della bruttezza per filtrare la bellezza. Come in un gioco di rimandi incrociati le opere escono delle gallerie ed entrano nelle pagine scritte; le soggettività tracciano parabole ardite per fondersi in oggettività dense di connessioni fra letteratura e filosofia. La pena non può essere una vendetta legale sotto le mentite spoglie di una riparazione sociale, un viaggio all’inferno senza ritorno: è questa la riflessione collettiva che, come un faro di orientamento nel buio della notte, ha guidato gli autori e gli artisti ad intrecciare i loro preziosi ed originali contributi.

Joanna Malinowska modula la sua arte di “antropologa culturale”, in perenne dualità fra materia e spirito nella ricerca di un equilibrio fra diverse culture, per chiedere la grazia di Leonard Peltier (nativo americano, pellerossa militante dell’AIM, sepolto in un carcere federale da 36 anni, condannato a due ergastoli senza prove certe), con una lettera a Obama e un cadeau di tabacco profumato per siglare la pace con i membri della “First Nations”. Sono inquietanti alcuni dati circa la popolazione carceraria negli Stati Uniti: è il 25% di quella mondiale (mezzo milione in più della Cina, che ha una popolazione cinque volte maggiore) e il tasso di delittuosità è condensato nelle aree più povere, tra gli afro-americani ed ispanici. Più che un indice di criminalità, si tratta di un indicatore del business carcerario-industriale, che da Reagan a Obama ha alimentato la diffusa privatizzazione delle prigioni e lo sfruttamento schiavistico di manodopera per le grandi imprese multinazionali.

Anche la pena di morte ha la sua rappresentazione artistica: le tonalità fiamminghe delle composizioni stampate su pelle di capra di Mat Collishaw (fino a Settembre al museo Pascali di Polignano a Mare ci sarà una sua personale) “Last Meals on Death Row”, riscrivono le nature morte seicentesche ispirandosi all’ultima cena dei condannati a morte nelle carceri USA con tocchi di “sublime orrore”.

Per Sarah Lucas, artista poliedrica e dissacrante, curatrice nel 2012 della Mostra “Free”, che alla Royal Festival Hall di Londra ha raccolto 190 opere di detenuti del Regno Unito, “anche i nostri corpi possono diventare una prigione; il nostro cervello ci può imprigionare”. D’altra parte “in carcere l’unica libertà è la libertà d’immaginazione; e la libertà è possibilità di cambiare, senza dover giustificare ciò che è stato prima”.

L’intreccio fra mondo letterario e artistico e quello dell’esperienza è declinato con rigore dal filosofo e storico dell’arte Paul Ardenne. “La prigione esiste, è un dato materiale, uno spazio, un perimetro di vita, un luogo di coscienza. Va visibilizzata, interrogata sul suo significato di rivelatore intimo, sociale, immaginario, simbolico”. Sfogliando le pagine si entra in un percorso circolare che libera la mente dal pregiudizio. Si colgono le intuizioni laiche e razionali e la consapevolezza di Foucault, i frammenti poetici di Genet e il suo “Chant d’Amour”, il crudo realismo della serie TV americana Prison Break, l’esistenzialismo di Heiddegger, le lacerazioni e le sconfitte dopo le illusioni di Kafka. Non si sfugge alla condanna nel “Processo”. Un solo boia  potrebbe sostituire un intero Tribunale. E nella “Colonia Penale ”c’è sempre la certezza della colpa”, tanto da essere incisa sulla pelle del condannato torturato dall’Erpice, legato ad un letto di cuoio mentre dall’alto lunghi e affilati aghi, con rumore assordante, gli attraversano il corpo durante la lunga agonia  prima della morte, scrivendo sulla pelle il suo “peccato”.

Compie un viaggio nella memoria Jean-Michel Pancin nella penombra della prigione di Saint-Anne di Avignon, ricomponendo con la cura del dettaglio, simile a un affresco di Balzac, le tracce di vita dei suoi abitanti come fossili nelle rocce. La luce accecante entra come lamelle, a intermittenza, nel buio delle celle: “Ho fatto dialogare la luce solare, la libertà e la potenza dei muri, depositari delle storie dei detenuti”. Jhafis Quintero (ex-detenuto a Panama, ora artista a quest’ultima Biennale di Venezia) abbatte con le sue creazioni le pareti della reclusione e delle tante solitudini: ”La creatività è essenziale per sopravvivere. Mi ha permesso di organizzare in maniera estetica il pensiero, mi ha fatto rappresentare la trasgressione che è parte di me”.


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