Sulla strada (senza ritorno)

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Non bastasse Darwin, pare che si venga al mondo al mondo (con dolore e senza averne fatto richiesta) per essere  perennemente ‘selezionati’,  scelti,  considerati ‘consoni’ : ad un lavoro, ad un’impresa, agli stress affettivi e mentali Ma chi resta fuori,chi è scartato, cosa farà? Andrà in discarica? Verrà rispedito al mittente? Dovrà nascondersi  agli ‘eletti’? Anni fa, un attore molto anziano, un Grande Vecchio della scena, al tramonto della sua magnifica carriera, mi confidava “Tutti noi teatranti veniamo dal nulla, dal girovagare, quindi dalla strada. E nella strada, dunque nel nulla, corriamo sempre il rischio di ritornare. Non c’è mestiere più voltagabbana…” Io gli risposi che anche il giornalista, specie il cronista di teatro, non è da meno;  dopodiché raggiungemmo la comitiva del ‘dopo teatro’ e seraficamente andammo a cenare.    Pensieri e parole  che si connettono oggi nel misterioso hard disk della  memoria   a proposito dell’ iniziativa  promossa da Gabriele Lavia al Teatro Argentina di Roma, in collaborazione con l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica e la Fondazione Teatro della Pergola di Firenze (in programma sino a fine giugno).

“Con ‘I giorni del buio’- riflette Gabriele Lavia-  il teatro incontra la strada per guardare la realtà e le facce che la portano impressa: vite e storie di uomini e donne di ogni età con un passato da riscattare e un futuro da immaginare. Ritratto di un mondo reale, popolato da reietti ,  su cui  ‘lavorano’  19 giovani attori chiamati singolarmente a raccogliere altrettante testimonianze, confessioni, storie e pezzi di esistenza vissuta, fra gli homeless di Roma”

Rendendo così i ragazzi della “Silvio D’Amico”, guidati da Lorenzo Salveti, attori e autori di un affresco corale di una  emarginazione che vive senza pietismi e cedimenti patetici   ai margini  delle megalopoli, quindi al nostro fianco

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“Avevo in mente uno spettacolo  che fosse al contempo  danza,  canto, urlo di rabbia. Dunque, una  specie di ballata da neo medioevo. Ecco perché’ I giorni del buio’. Di giorno, si sa, si vede tutto o quasi, oppure si fa finta di non vedere…  di notte invece si brancola nell’invisibile. Noi  tentiamo di fare al contrario. Gli homeless  vivono una vita rovesciata:  il rapporto buio\luce, per loro, non ha più senso. Come dire? La luce, convenzionalmente intesa, non ha più nulla da rivelare, perché tutto ciò che si doveva apprendere,per attrezzarsi alla vita ostile, lo si era già appreso nell’oscurità”

Come si è sviluppato, in pratica, questo lavoro di cernita e ricerca?
 “Ho chiesto ai giovani attori  di raccogliere le testimonianze, le confessioni,le confidenze   di uomini e donne che vivono accanto ad altri uomini e donne  che hanno una casa, sia pure un tugurio.     Cosa differenzia gli uni dagli altri? La casa, appunto. Non avere la casa è il  buio. Vivere per la strada non ha né può dare alcuna luce. Le confidenze raccolte dai giovani attori sono lunghissime.    Barboncino è il barbone novello. Aspirante barbone è il Barbone che ha almeno cinque anni di anzianità. Attenzione, però:  non esiste il maestro barbone. I barboni sono tutti maestri,  specie se scelgono di cooperare, di non farsi la guerra.

Tante lezioni  di vita…
 “Le confidenze dei nostri barboni, dicevo, sono lunghissime. Ne abbiamo estratto e testimoniato  un frammento per ciascuno. Non volevo nulla di realistico. Non volevo che i nostri giovani attori facessero la parte di barboni di una certa età o, addirittura, fossero vecchissimi. Pensavo a giovani attori che dessero il loro respiro poetico all’anima dei nostri nuovi amici senza nessuna mimesi, anzi segnandone la distanza che è l’inverso dell’ipocrisia compassionevole.  Se non hai nessuno che ti vuole bene, smetti di esistere   e diventi un fantasma , dice una signora barbona. E un signor barbone:  l’uomo è un animale strano. Chissà cosa volesse dire?”

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Sul piano figurativo,lo spettacolo è una lunga  sequenza coreografica collettiva che intreccia ciascuno dei   monologhi in un unico flusso narrativo ove la desolazione si accompagna all’ ingegno e  al ‘bisogno’  di vivere. Tutti reclusi  in un luogo disseminato di oggetti abbandonati e senza valore d’uso- ma che diventano scenografia materica  avanzante verso un  habitat dismesso e in deflagrazione (lungo il proscenio)   Gli homeless si muovono disegnando una galleria di ritratti a punta secca,  scorie d’anima  scolpite  in corpi inermi   ed enfatizzati da una bianca nudità che ‘impagina’ creature  in marcia spasmodica verso destinazione ignota

“In contrasto dialettico con il coro- precisa Lavia-  si alternano le voci che raccontano momenti di vita e la scelta dell’incontro con la strada: chi per una motivazione di libertà o di ribellione; chi perché si è ritrovano vittima di un licenziamento e di una crisi che ha sradicato casa e famiglia, oppure perché ha ereditato questo stile di vita da generazioni. Tra respiri, urla, lacrime e risate, ciascuna voce dichiara un’età molto distante da quella reale dei corpi dei giovani attori che portano in scena, non la rappresentazione di esistenze invecchiate, stanche e debilitate, bensì l’esposizione onirica e poetica di sentimenti, idee, tenerezze e dolori. Ovvero, la rappresentazione di un sogno che diventa  favola  per   meglio conoscerli  e interrogare i loro destini.


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