Iran al voto, tra intimidazioni, arresti e stampa imbavagliata

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In Iran si vota per le presidenziali il 14 giugno prossimo. La scelta del successore di Mahmood Ahmadinejad è stata ristretta a 8 candidati dal vaglio del Consiglio dei Guardiani, l’organo costituzionale formato da 12 giuristi religiosi che ha il compito di giudicare la compatibilità degli aspiranti con la costituzione e le leggi islamiche. Ieri i candidati sono diventati 7, perché Gholam-Ali Haddad-Adel ha deciso di farsi da parte. Non è da escludere che, nei prossimi giorni, arrivino altre rinunce o accordi tra candidati.

Non è questa la sede per un’analisi politica del voto e delle sue prospettive. Il nostro compito di difensori dei diritti umani e della libertà d’informazione è quello di rappresentare il contesto di soppressione dei diritti fondamentali in cui gli iraniani saranno chiamati a votare; quanto poco, cioè, siano “libere” queste elezioni che la Guida Suprema Ali Khamenei non ha avuto difficoltà a definire “assolutamente libere”.

Da due anni e mezzo, i due leader dell’opposizione riformista, e candidati alle presidenziali del 2009, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Kharoubi, sono costretti agli arresti domiciliari. Con Mousavi si trova in stato di detenzione anche sua moglie Zahra Rahnavard. Non ci sono accuse formali a loro carico, né hanno subito alcun processo. Semplicemente sono stati fatti sparire con la forza dalla scena politica.

I riformisti avevano riposto le loro speranze nell’ex-presidente Hashemi Rafsanjani. La sua scelta di scendere nuovamente in campo era stata accolta con entusiasmo. Rafsanjani, per peso e spessore politico, era considerato dai riformisti l’unica figura in grado di contrastare lo strapotere della Guida Suprema. Ma, con una mossa a sopresa, il Consiglio dei Guardiani lo ha escluso dal lotto dei candidati, di fatto rendendo il voto del 14 una partita da giocare tutta all’interno dell’entourage di Khamenei. I 3 uomini della Guida suprema sono Saeed Jalili, diplomatico che ha rappresentato l’Iran nei negoziati internazionali sulla questione nucleare; Ali Akbar Velayati, consigliere di Khamenei per gli affari internazionali, in passato a lungo ministro degli esteri e con un mandato di cattura internazionale sulle spalle per l’attentato contro la comunità ebraica di Buenos Aires che, nel 1994, causò la morte di 85 persone; e Mohammad Bagher Ghalibaf, attuale sindaco di Teheran. Il Consiglio dei Guardiani ha escluso dalla competizione anche un altro possibile favorito, Esfandiar Rahim Mashaei, delfino e consuocero del presidente uscente Ahmadinejad i cui contrasti con Khamenei, negli ultimi due anni del suo mandato, sono stati la “colonna sonora” della politica iraniana. E le scelte del Consiglio dei Guardiani sono parse basarsi su un metro di giudizio molto chiaro: chi si mette contro la Guida Suprema non ha il diritto di aspirare alla presidenza e di concorrere alle “libere” elezioni.

Il regime, memore delle proteste di massa che seguirono le contestate elezioni del 2009, proteste soffocate con la repressione violenta nelle strade e con migliaia di arresti di prigionieri di coscienza, ha deciso questa volta di percorrere la strada della prevenzione. Le autorità hanno ripetutamente messo in guardia chiunque voglia sfruttare le elezioni per ripercorrere la strada della “sedizione”. Tanto aperta e vivace era stata la campagna elettorale di 4 anni fa, tanto questa è stata ingabbiata in dibattiti televisivi le cui rigide regole sono state contestate dagli stessi candidati. Si aggiunga il fatto che la spaventosa crisi economica in cui le sanzioni internazionali hanno fatto precipitare il paese ha spinto in secondo piano i temi istituzionali e la richiesta di maggiore democrazia e libertà. La questione economica domina, comprensibilmente, le preoccupazioni dell’iraniano medio.

Le manifestazioni e i comizi dei due candidati moderati, il religioso Hassan Rouhani e il riformista Mohammad Reza Aref, hanno fatto registrare la ricomparsa, tra i rispettivi sostenitori, degli slogan del Movimento Verde. Si sono riascoltati i canti in favore di Mousavi e Karoubi, cori che chiedevano il rilascio dei prigonieri politici, inni del movimento studentesco iraniano e, persino, grida contro Khamenei (“Marg bar dictator”, morte al dittatore). Tanto è bastato perché le due campagne di Rouhani e Aref venissero ripetutamente bersagliate dalle forze dell’ordine, che hanno effettuato irruzioni e arresti ai comizi e perquisizioni nei quartier generali dei due candidati. Una procedura insolita, per elezioni “libere”.

E mentre nelle strade delle maggiori città iraniane le forze dell’ordine preparano un dispiegamento di agenti tale da scoraggiare qualsiasi velleità di protesta, i sistemi di controllo e di filtraggio hanno annullato qualsiasi possibilità di uso libero della rete Internet, i giornalisti di opposizione sono o in prigione o ridotti al silenzio, e i siti web “scomodi” così come i giornali riformisti, sono stati chiusi o minacciati di esserlo.

Reporters Sans Frontières ha pubblicato pochi giorni fa un comunicato che costituisce un vero e proprio prontuario per i giornalisti stranieri che si recheranno in Iran a seguire le elezioni. Un lavoro, quello dei media esteri, che il regime ovviamente vede come fumo negli occhi. Il Ministro della cultura e della guida islamica (l’Ershad) ha invitato il ministero della sicurezza “ad esaminare minuziosamente le richieste di visto in modo che, contrariamente a quanto accaduto durante le ultime elezioni, alle spie sioniste sia impedito di entrare in Iran.” Al 28 maggio scorso, le richieste di visto arrivate erano 200, in rappresentanza di 105 testate di 26 paesi. Tutti i giornalisti autorizzati saranno ospitati nello stesso albergo di Teheran, il Laleh International Hotel. RSF esorta quelli che avranno la possibilità di entrare nel paese a sfruttare l’occasione per raccontare il modo in cui il regime iraniano viola le libertà fondamentali, in particolare la libertà d’informazione. L’invito dell’organizzazione è anche a “dare spazio il più possibile alla drammatica situazione dei giornalisti incarcerati in Iran. A differenza dei loro colleghi iraniani, i reporter stranieri avranno la possibilità di intervistare le famiglie dei 54 giornalisti e blogger attualmente in carcere.” La nota di RSF procede con un rilievo che suona quasi amaramente ironico: se è vero, come funzionari governativi sostengono, che Mousavi e Karoubi non sono agli arresti domiciliari “i giornalisti dovrebbero avere la possibilità di incontrarli e di parlare con loro.”

Agli inviati in procinto di partire per l’Iran, Reporters Sans Frontières fornisce poi un elenco di misure precauzionali da adottare per sfuggire ai controlli esercitati dal regime sul traffico Internet, sulla posta elettronica, sui telefoni cellulari. A leggerlo nel dettaglio, sembra un manuale per hacker, ma è quello che serve a giornalisti che vogliano raccontare la verità, sfuggendo alla censura del regime senza mettere in pericolo se stessi, il proprio lavoro, le proprie fonti, i contatti interni al paese.

Perché non si tratterà di raccontare al mondo elezioni libere, a meno di non volersi adeguare alla farsa del regime. I 54 colleghi iraniani prigionieri politici meritano che qualcuno, al loro posto, sia la loro voce.

* Presidente di Iran Human Rights Italia – www.iranhr.it


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