Il voto utile, quello del cuore, contro l’analfabetismo elettorale ed i ladri d’Italia

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Quella che sta per chiudersi è la campagna elettorale più brutta dell’Italia Repubblicana ma è anche l’immagine più reale di un Paese allo sbando. Che noi italiani non siamo mai stati capaci di mostrare gli attributi nei momenti cruciali lo dice la storia: siamo sempre saltati sui carri dei vincitori perché, in fondo, da ogni competizione elettorale, mai nessuno ne è uscito sconfitto. Tutti, ognuno adducendo motivazioni ragionate, hanno sempre vinto. Chi per essere arrivato in cima, chi per aver conquistato un punto in più, chi per aver espugnato una roccaforte di 1200 abitanti, chi, infine perché a perdere è stato l’avversario storico. Di certo non ha mai vinto il Popolo italiano. “POPOLO” una parola che non possiamo più utilizzare, come non possiamo dire “DEMOCRATICO”, “LIBERTA’”, “FRATELLI D’ITALIA”, “RIVOLUZIONE”, “CIVICA”… hanno rubato le parole della nostra ITALIA, i motti che hanno cantato ed urlato i nostri soldati nelle guerre, gli unici che da sempre hanno creduto ai principi autentici su cui si basa il nostro Paese al di là delle idee dei suoi “generali”. L’Italia e gli italiani prima di tutto! Ma è stata solo un’utopia! Un sogno di quanti sono andati a morire col Tricolore sul petto e nel cuore. Nel frattempo c’era chi pensava a come spartire i territori, il Potere, a come gestire il controllo dei cittadini che dovevano sì avere diritti, ma solo dopo aver svolto i doveri imposti.

Tra questo il “dovere di votare” … e ciò era ripetuto ovunque, nelle sedi dei partiti e durante le omelie nelle chiese. “DOVERE”, sì, di mettere una CROCE! Lo dicevano i sacerdoti ai tempi della DC, lo dicevano i capopopolo nelle sezioni del PCI. Una “croce” sulla croce o sulla falce e martello… a cui si aggiunsero garofani, foglie, fiamme, “soli che nascevano” e “soli che ridevano”. Era un’Italia prevalentemente analfabeta quella che si recava alle urne, soprattutto al Sud. E gli italiani, inconsapevolmente, offrivano il loro “dovere” senza pretendere il “diritto” di rappresentanza, di ascolto delle istanze e dei bisogni, di crescita culturale, di un lavoro onesto e meritorio per tutti.

E crescevano le promesse, si “facevano parole per tutti” ed “affari per pochi”, li legiferava nell’interesse di chi poteva garantire pacchetti di consensi a cominciare dalle grandi aziende, ai sindacati, al lavoro statale, ai coltivatori diretti che muovevano il voto di braccianti ed anche dei caporali. Non è cambiato nulla nemmeno con l’arrivo dei “nomi” sui simboli. Tutto è rimasto invariato ad eccezione della violenza del Potere che è aumentata, facendo crescere il bisogno e strozzando l’economica non di un intero Paese bensì dell’ultimo cittadino. Non può dirsi democratico uno Stato nel quale il divario tra ceti sociali è abissale, nel quale quella parola tanto in voga, “spread”, tra un uomo e l’altro non ha un’unità di misura a cui fare riferimento, nel quale si parla di parità a seconda della convenienza e di pari opportunità solo per rivendicare qualcosa che forse non lo si avrebbe se si avesse come metro solo il merito. Un “merito” non a parole, non legato al “merito di avere congiunti o amicizie che contano”, ma un merito valutabile su basi oggettive e soggettive legate alle esclusive capacità di ognuno. E chi dovrebbe giudicare? Sembra un’utopia, ma la risposta è semplice: l’analisi della storia di ciascuno di noi, partendo dall’autocritica e sottoponendoci al giudizio degli altri! Ma siamo in Italia!! Sempre quell’Italia dei servi e lacchè, dei giudici che non vogliono essere giudicati, della “legge uguale per tutti sapendo che tutti sono diversi”, della scuola tenuta da insegnanti che non conoscono le regole basilari della grammatica e della dizione corretta delle parole, che assegnano la storia come se fosse un antibiotico amaro e guardano con diffidenza alla scienza ed alle nuove tecnologie. Quell’Italia dei giornalisti imbavagliati, perché se esprimi libertà di opinione o di pensiero resti a spasso e magari con una pallottola nella buca delle lettere. Quell’Italia che ha riempito le università di tanti asini senza futuro e di pochi studenti davvero bravi che devono lottare contro i figli delle caste, quell’Italia che si riempie la bocca della questione morale ricordando Berlinguer ma che segue il telegiornale diretto dalla figlia entrata in Rai dopo la morte del padre per il cognome che portava… quell’Italia che è contraddizione di comodo e fa comodo a tutti che resti così!

Siamo all’ennesima campagna elettorale, la peggiore in assoluto. Un grande minestrone di maschere, imbroglioni, figli d’arte, doppiogiochisti, ladri ed avventuriere… ed ancora una volta siamo all’analfabetismo elettorale!

“Dammi il voto, io sono in lista per la Camera!… Al Senato fai come vuoi… ma vota per me!”. Dare il voto a chi? Votare vuol dire scrivere un nome, non mettere una croce. Di croci in Italia ne abbiamo già tante e ne portiamo fin troppe, tanto che siamo costretti a lasciarle in eredità ai nostri figli ed ai nostri nipoti. Paghiamo le colpe degli “analfabeti elettorali” di 50 anni fa, di quelli degli anni ’70, ’80, ‘90… ora basta! Questo sistema va rotto e siccome l’Italia, quella che ancora esiste nel cuore di pochi, ha già scontato gran parte della sua pena, ora tocca a quanti l’hanno violentata, abusando della sua capacità di sognare un futuro migliore.

Non turatevi il naso, ma mettete la mano sul cuore quando andrete a votare: ripetete, “Fratelli d’Italia… l’Italia s’è desta”, che la nostra “è una Repubblica democratica” per la quale uomini veri hanno creduto nella “rivoluzione civica”… Non fatevi rubare le parole della nostra Patria e votate per mandare a casa i vostri aguzzini e quelli che hanno violentato vostra madre ITALIA! Sarà l’Unico voto utile, quello del cuore, che consentirà di rompere il sistema, che farà perdere finalmente qualcuno e che forse li farà vergognare ed uscire definitivamente di scena affinché si possa ripartire riavviando l’Italia che vuole vivere e non sopravvivere.


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