La Shoah dei bambini

1 0

Sono sempre gli occhi dei bambini ad arrivare dritti ai cuori, a smascherare la miseria e l’orrore che la nullità della ragione genera. Quando ci assale il timore che le parole del vocabolario non sono sufficienti per comporre le frasi giuste a descrivere tutto il dolore e l’orrore della Shoah, una ferita mai guarita e che in tanti vorrebbero ancora sanguinante, allora ci vengono in aiuto le immagini delle vittime, per mantenerne vivo il ricordo.

“Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile”, scriveva nel 1951 Hannah Arendt nel suo saggio “Le origini del totalitarismo”. Purtroppo “la banalità del male” è sempre d’attualità e le sue ombre macabre continuano a  riflettersi ancora nel nostro presente, a rammentarci che solo l’esercizio costante del pensiero e dell’immaginazione può salvarci dal conformismo acritico in cui ogni cosa diventa indifferenza, facile anticamera all’odio razziale, negazione dell’idea stessa del concetto di umanità. ”Perché il male non è mai così radicale, ma solo estremo, non possiede né profondità né dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie”.  Solo la certezza che la memoria storica non va mai dispersa può garantire il progredire della civiltà; solo la consapevolezza che la lucida volontà di sterminio di un intero popolo  passò anche attraverso i forni crematori di Auschwitz, ha la persuasione di allontanare da noi la paura di poter nuovamente sprofondare nel buio dell’inferno. Fra i tanti significativi appuntamenti ”Per non dimenticare”, in queste giornate e non solo, ci appaiono  in tutta la loro concreta, poetica capacità di imprimersi nell’animo e di accendere una luce di condivisione, tre iniziative dal grande valore storico e documentale: l’expo “Al cuore del genocidio dei bambini nella Shoah, 1933 – 1945” (al Memoriale della Shoah di Parigi); lo struggente libro “16 – 10 – 1943. Li hanno portati via”, promosso dalla Provincia di Roma (Edizioni Fandango) e la mostra “Ricordo dei bambini di Terezin” al Museo Ebraico di Genova (fino al 14 Marzo).  “Il senso delle celebrazioni della Shoah deve guardare in avanti”, spiega il rabbino capo di Genova, Giuseppe Momigliano, “perché la fantasia dei bambini era viva, anche in un posto di morte. Si vede il loro attaccamento alla vita, a un’idea di futuro; la si percepisce nei loro disegni, nei loro pensieri, è al tempo stesso una testimonianza dell’orrore e della speranza di continuare a vivere”.

Scorrono davanti ai nostri occhi, in un crescendo di emozione, decine e decine di foto di bimbi, spesso piccolissimi, ripresi nella normalità di un’esistenza che, da lì a poco, sarebbe stata spazzata via, insieme a disegni, giocattoli, letterine e pagine di diari dalle scritture minute, compilati nei mesi precedenti la morte; sprazzi di quotidianità ancora non cancellati, ricordi di affetti e di momenti scolastici, di spazi all’aperto e di mura scolastiche, diventate in fretta barriere di filo spinato in cui bruciare i pochi anni dello loro brevi vite. E poi i registri, fitti di schede con i dati anagrafici, redatti dagli aguzzini al momento della deportazione: la data di nascita, l’arrivo al ghetto, la morte. Le cifre ufficiali, impietose e approssimative, ci raccontano di 1 milione e 500 mila vittime. Conoscere i loro volti, incrociare, anche solo per un attimo, quegli sguardi inconsapevoli e soffermarci sui loro sorrisi innocenti, ci fa quasi sentire l’eco lontana delle loro voci, ci permette di conferire ai numeri il valore reale delle storie personali, di restituire un brandello di dignità a chi “più debole fra i deboli” è stato travolto dalla bestialità di una follia ragionata e dall’indifferenza  di quanti fecero finta di non sapere.

Questa discesa nelle viscere della sofferenza è anche l’acquisizione di una nuova chiave di comprensione per leggere la Shoah, per entrare nei suoi grovigli dannati senza fondo, per impedire, anche al tempo che scorre, di sbiadire i suoi contorni, perché ogni vicenda storica, se vista solo da lontano, rischia di confondersi con altre, perdendo i suoi significati. E allora è necessario coniugare il passato ad un eterno presente, fatto di testimonianze. “Ogni volta che io apro una lettera o scopro una foto, è come se la vita rinascesse”, spiega Serge Klarsfeld, scrittore e storiografo, autore del libro “Memoriale di bambini ebrei deportati in Francia”, in cui ha ricostruito migliaia di biografie, riunendo insieme frammenti di universi perduti, di infanzie violate, di bambini che incrociano i loro occhi smarriti con i nostri, per scuotere le coscienze e sollecitare interrogativi oltre l’emozione e i naturali sentimenti di pietà.

La mostra parigina in maniera tematica, più che cronologica, ricostruisce nei dettagli, con filmati, foto e documenti, l’ascesa al potere del nazismo in Germania, dai primi episodi di esclusione degli ebrei dalla vita pubblica, fino alla “fase finale della questione ebraica”, ponendo al centro la sorte dei bambini, i soggetti più indifesi e “meno produttivi” nell’orrendo linguaggio “programmato scientificamente” di annientamento di un intero popolo, considerato “reietto e razza inferiore”. Molti non sopravvissero al viaggio, stipati nei convogli come bestie, o furono immediatamente avviati nei forni crematori appena arrivati; altri furono smistati nei laboratori per essere sottoposti ad orribili esperimenti scientifici. A volte sono gli oggetti a narrare le loro piccole-grandi storie: è una valigia scura a parlare di Hana Brady, nata il 16 maggio del 1931, orfana, gasata ad Auschwitz nel marzo del ’43. E’ un quaderno con le pagine ingiallite a rivelarci lo straordinario mondo interiore di Uri Orlev, 13 anni, internato a Bergen-Belsen. La sua poesia è senza tempo:

“…Il treno si muove, pieno di grida, stridente e gracchiante. / Avanza all’inizio lento e poi prende a correre. / Dove vanno queste persone ammassate crudelmente? / Il treno se ne va, ritornerà e partirà di nuovo, sulla stessa strada. / Ma quei viaggiatori li si cercherà invano alla stazione di partenza, perché non torneranno mai / I loro carnefici li hanno caricati con forza sul treno / Questo è il loro ultimo viaggio /…Dio dov’è la giustizia, dov’è la legge? /…Tutti i giorni e le notti, sento le sirene, i respiri delle locomotive. / Spostandosi e tirando i vagoni pieni di gente, il treno galoppa. / Muggisce e soffia, si libera del fumo e prende velocità / E tutt’intorno ci sono sempre meno persone / Il vuoto e il silenzio li rimpiazzano / e a Treblinka i cadaveri si ammassano.”

A 14 anni, Michael Kraus scrive: “L’11 luglio non ho dormito. La notte era chiara, il cielo era rosso. D’altro non so dire. L’11 luglio è stato ucciso mio padre. Ho serrato i pugni, ho pianto e ho fatto la promessa di vendicarlo…Il cielo era un fuoco”.

Sara, 16 anni, scrive nel marzo del ’42 dal ghetto di Varsavia: “Ho provato a soccorrere mia sorella, fin tanto che ho potuto. Le ho dato delle rape crude tutto il tempo; ma non ce l’ha fatta: si è gonfiata  ed è morta”.

La lettera d’addio al padre, di Junita Vichniatskaia, il 31 luglio del ’42, è angosciante: “Caro papà! Ti dico addio prima di morire. Volevamo tanto vivere, ma è inutile sperare, non ci è permesso! Ho tanta paura di questa morte, perché gettano i bambini piccoli ancora vivi nelle fosse: Addio per sempre. Ti abbraccio forte, forte”.

La mostra di Genova, come quella parigina, illustra la vita quotidiana nel campo di Terezin, allestito dai nazisti per esibire in maniera propagandistica un modello “umanizzato” agli occhi degli ispettori della Croce Rossa Internazionale. Dei 15 mila bambini che vi transitarono, fra il 24 novembre del ’41 e la primavera del ’45, se ne salvarono solo un centinaio: solo quelli che avevano compiuto 14 anni.

Le immagini traducono accenni di giornate scandite da apparenti normalità: lezioni di disegno e musica, laboratori teatrali, materie scolastiche. I sentimenti che affiorano sono molteplici: i bambini disegnano il loro mondo perduto, le loro case, i giardini con i fiori, le mamme e i papà, piatti ricolmi di cibo, i giochi di un tempo confuso nei ricordi. E quindi la paura, i muri del ghetto, i letti a castello, le malattie, i funerali, i fucili, il sangue…..

Dei 230 bambini  deportati dal ghetto di Roma il 16 ottobre del 1943, nessuno si salvò. Ma le ricerche, effettuate soprattutto nell’Archivio della Croce Rossa a Bad Arolsen, in Germania, fra i faldoni provenienti da 7 mila sedi coinvolte nel conflitto, seguono filoni investigativi, per rintracciare anche in altre direzioni tasselli di un mosaico delle atrocità in gran parte ancora non affiorate. I destini, le tenere, fragili vite violate di questi bimbi sono state amorevolmente raccolte attraverso un lavoro collettivo, guidato da Umberto Gentiloni e Stefano Palermo. Sono immagini del tempo felice, abitini della festa, ricorrenze familiari, giochi nei cortili. Settimio di Segni, 6 anni, ucciso 6 giorni dopo la razzia, è ritratto a cavallo della bicicletta con la madre. Graziella Calò, di 3 anni, con i nastri nei capelli, è seduta nel giardino. Elisabetta Di Nepi, 5 anni, sorride nella foto che la ritrae ai suoi primi passi. Carlo e Massimo D’Angeli, fratellini di 5 e un anno, ci osservano con buffe espressioni. Nella Calò, 6 anni, ha il viso dolce e paffuto. Fiorella Anticoli, di 2 anni, è bellissima con  i riccioli raccolti e gli occhi luminosi.

Vite strappate dal vento dell’odio e perdute nei fumi di grigi camini, che continuano a disegnare stelle filanti nei nostri cieli, affinchè nessuno possa più dimenticare.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21