“Maledetta Mafia”

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di Virginia Invernizzi
Ufficialmente si trattava della presentazione del libro Maledetta Mafia di Piera Aiello e Umberto Lucentini, edito dalle edizioni San Paolo, a Palazzo Marino il 24 ottobre, in realtà l’incontro è stata un’occasione, per Milano e le sue istituzioni, di tornare a parlare di mafia dopo gli scandali che ci sono stati in Lombardia. Tornare a parlarne con la voce di chi ha scelto di opporvisi, come Piera Aiello che a 21 anni, vedova di un boss locale, decise di lasciare con la figlia piccola il suo paese, Partanna, e quella vita pervasa dal fenomeno mafioso per cominciare a collaborare con la giustizia, sostenuta dal procuratore Paolo Borsellino.

Quella di Piera Aiello è la storia di una giovane donna che ha scelto di dare un futuro diverso a sua figlia, mostrando che un’altra scelta era possibile come ha ricordato Umberto Ambrosoli nel suo discorso: “Grazie per aver scritto questo libro, grazie perché i ragazzi devono sapere. Devono sapere quant’è difficile portare avanti per tanti anni le proprie convinzioni, che il Male esiste, quanto la Mafia sia terribile e pervasiva, ma soprattutto devono sapere che ci si può liberare della mafia. C’è riuscita una donna, una nuora, una cittadina, per cui la mafia era suo suocero”. Come ha ribadito Umberto Lucentini, coautore del libro e autore anche di un libro dedicato a Paolo Borsellino: “Piera è la dimostrazione che non piegarsi a qualunque ricatto paga, perché Piera oggi è una donna libera e felice”.

La libertà per Piera è una conquista faticosa, come spiega bene nel libro: “Quante volte ho ripensato a cosa mi è passato per la mente in quei secondi: io che mi ribellavo a mio padre per i vincoli che mi imponeva da bambina, ora mi ritrovo in una sorta di galera legalizzata”. La difficoltà di vivere all’interno del programma di sicurezza, Piera l’ha descritta con toni quasi provocatori: “Non auguro neanche al mio peggior nemico che è un mafioso di diventare testimone di giustizia”. Difficoltà spesso esasperate da uno Stato assente e distratto, come dimostra la mancanza di una legge per l’inserimento socio-lavorativo delle persone sotto il programma di protezione. A questa lacuna hanno cercato di provvedere gli stessi testimoni: “Ci siamo ritrovati in una ventina di testimoni di giustizia e ci siamo fatti scrivere un testo da un legale che preveda un aiuto ai testimoni di giustizia per quello che riguarda l’inserimento lavorativo.

L’abbiamo consegnato alla ministra Severino, a Di Stefano, a tanti politici di diversi colori, non abbiamo ricevuto risposta. Il 30 ottobre hanno avuto un’audizione al Parlamento europeo per questo problema e sperano nell’intervento dell’Europarlamento”. Difficoltà grandi e piccole che a volte si risolvono grazie al buon senso degli operatori, come il direttore della scuola che accetta di iscrivere la figlia di Piera, Vita Maria, a scuola con un nome falso: se si fosse aspettato lo Stato ci sarebbero voluti anni, troppo è ancora lasciato alla buona volontà dei singoli.

Testimone delle difficoltà legate al vivere sotto scorta, dell’assurda situazione per cui in questo Paese deve vivere nascosto e si deve proteggere chi i reati li denuncia e non chi li commette è anche Giancarlo Caselli, procuratore capo della Repubblica a Torino, che ha condotto molte inchieste contro la mafia. Procuratore capo di Palermo dal 1993 al 1999, ha poi continuato a portare avanti le battaglie antimafia anche a Torino e in sede europea con la sua collaborazione con l’associazione comunitaria “Eurojust”. Caselli ha voluto ricordare il ruolo di Borsellino, assassinato vent’anni fa: “Leggendo il libro di Rita si capisce come tutte le nefandezze scritte contro Borsellino prima e Falcone poi per impedirne la nomina a capo del pool antimafia e quindi per smantellarlo fossero infami.

Si parlò all’epoca di professionisti dell’antimafia, dando l’impressione che il procuratore se ne occupasse perché facevano rumore e per passare davanti agli altri, per carrierismo. Dal libro di Piera emerge invece tutta la professionalità di Borsellino, la sua umanità, tutte le attenzioni riservate a Piera ed alla figlia. Il procuratore Caselli parla dell’impegno nell’interrogare i pentiti e nel verificare le loro deposizioni: “Falcone sottoponeva i pentiti ad un vero e proprio terzo grado, ad un fuoco di fila di domande per portarli ad eventuali contraddizioni”.

Caselli ha reso anche una testimonianza importante sulla mafia al Nord, dicendo che è pazzesco che ancora ora vi sia sorpresa  quando il fenomeno è noto da anni: il primo comune sciolto per mafia è stato Bardonecchia, in provincia di Torino, nel 1995. La sorpresa si spiega solo con l’arretratezza culturale e l’amore per il quieto vivere. Il procuratore di Torino ha parlato anche della campagna montata contro l’utilizzo dei pentiti e di come si sia tentato di smantellare le indagini condotte, raccontando anche della scossa che diedero al Paese gli omicidi di Falcone e Borsellino e di come, dopo, vi fosse la fila fuori dalle procure per poter testimoniare.

La morte di Falcone e Borsellino produsse allo stesso tempo un grande sconcerto in coloro che collaboravano con la giustizia: di quei giorni ha parlato Rino Germanà, che allora come poliziotto collaborava con Falcone e Borsellino e per questo venne fatto oggetto di un attentato davanti alla chiesa di Santa Chiara. “Sono entrato in polizia perché, dovendomi sposare, volevo avere un lavoro. Ma mi ci sono messo con passione e Borsellino come procuratore mi ha aiutato tanto, cercavamo di capire come ragionavano i mafiosi. Lavoravo con senso del dovere, non pensavo che per questo avrei subito un attentato. Per fortuna mi hanno colpito di striscio, ho reagito d’istinto, sono stato fortunato? Sono stato miracolato? Non lo so, sta di fatto che sono sopravvissuto”.

La testimonianza più forte sullo sconforto che prese i collaboratori di giustizia dopo la morte di Falcone e Borsellino si trova nel testo con cui Rita Atria (figlia di don Vito, sorella di Nicola, il marito di Piera che la seguirà nella sua scelta di testimone di giustizia) commenta la morte di Giovanni Falcone in un tema per l’ammissione al terzo anno di istituto alberghiero: “Giudici, magistrati, pentiti di mafia oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno potrà salvarli da quella cosa che chiamano mafia. Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un’immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare”.  Di Rita Atria ha parlato molto don Ciotti, uno fra i protagonisti di questo libro; grazie a Libera don Ciotti ha portato la testimonianza di Piera a molti giovani in molte scuole: “Il nome di Rita, non più scritto sulla sua tomba perché quest’ultima è stata danneggiata, va urlato e deve essere scritto nelle nostre coscienze”. Don Ciotti non fa sconti a nessuno, non alla Chiesa, spesso troppo timida se non compiacente di fronte al fenomeno mafioso, che quasi voleva negare il funerale a Rita Atria, suicida per la disperazione dopo l’attentato di via D’Amelio dove aveva perso la sua stella polare, il suo “zio Paolo”.

Non è tenero neppure con la politica ed il governo: “La legge anticorruzione è un giusto segnale, ma rischia di essere un’occasione sprecata, non si capisce perché tutti invocano il cambiamento, ma quando si rischia di farlo una parte di Paese rema contro.” È duro don Ciotti nel denunciare la frattura fra politica ed etica pubblica: “Sembra che l’etica non sia più la base della politica, ma questo è inaudito!”. Nonostante tutte le difficoltà, però, grazie all’incontro a Palazzo Marino è stato possibile far risaltare in tutta la sua bellezza la testimonianza della vita di Piera, della sua sana testa dura, del suo attaccamento ai valori. E di chi dice no, come i ragazzi di “Libera”.

Una buona notizia, che indica una Milano che sta rispondendo al fenomeno mafioso, è venuta da David Gentili, presidente della Commissione consiliare antimafia del comune di Milano: il Comune  si è costituito parte civile nel processo di Lea Garofalo, dando un segnale contro l’omertà e la paura che circondano il fenomeno mafioso al Nord. Notizie buone sono venute anche da “Libera”, che apre per la prima volta una bottega per i suoi prodotti a Milano, in via San Michele del Carso (informazioni sono reperibili anche via Facebook alla pagina “La bottega di Libera Terra @Milano”). È una buona notizia perché sarà un luogo in cui trovare tutte le referenze di Libera Terra; oltre al servizio commerciale, la bottega propone anche momenti di socialità e approfondimento. Diventando clienti, non solo si possono acquistare prodotti di ottima qualità, ma si è concreti artefici della sostenibilità economica di questa impresa, decidendo con il proprio comportamento di consumatori di lasciare a Milano parte del guadagno della filiera. Dato che l’economia è uno dei motori della società, per sensibilizzare la società verso il concetto concreto di giustizia una bottega è un passaggio concreto e plausibile.
Come scriveva Rita Atria nel suo tema sulla morte di  Falcone nel 1992, “Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.


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