“È finito un incubo, ora inizia un lungo cammino”

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Le sue prime parole, all’annuncio della vittoria, sono state: «È finito un lungo incubo, ora inizia un lungo cammino». In realtà, il suo, di cammino, non si è mai arrestato. Ha attraversato 15 lunghi anni di arresti domiciliari, ha superato la lontananza dalla famiglia, l’annuncio della morte del marito, i sensi di colpa, i digiuni, i massacri delle ragazze e ragazzi del movimento studentesco 88 Generation che l’avevano appoggiata, la mancata consegna di un grande riconoscimento internazionale: il Premio Nobel per la pace, la prigionia dei compagni di partito e dei monaci che presero parte alla “rivoluzione zafferano” del 2007.
Certo, la posta in gioco erano solo 45 seggi su 1160 (inizialmente 48, poi il voto nella regione di Kachin è stato sospeso per ragioni di sicurezza). “Briciole”, per il partito della Lega nazionale per la democrazia (Nld) che si oppone al regime da 22 anni, senza mai poter partecipare alle elezioni (solo tre, in mezzo secolo di storia). Ma si tratta sempre e comunque di un primo passo dal “sapore democratico” verso le votazioni che si avranno tra non meno di tre anni, nel 2015.
Ora inizierà la guerra dei numeri. Le prime proiezioni, diffuse dalla Nld ma non confermate dal regime, danno nella circoscrizione rurale di Kawhmu la vittoria della leader birmana in 112 seggi su 129 (82%) e l’affermazione del partito in oltre 30 seggi dei 45. Suu Kyi aveva già denunciato nei giorni scorsi, ai 300 giornalisti arrivati per la prima volta in Birmania da tutto il mondo, brogli e intimidazioni. Soprusi non narrabili dai 150 osservatori stranieri arrivati troppo tardi (poco meno di una settimana) per poter monitorare in maniera seria la credibilità di queste elezioni.
Diversi giornali occidentali hanno scritto che si tratta di una vittoria simbolica più che di un vero cambio di passo del regime. Ma certo si tratta di un passo impensabile se si ripercorre la storia di Aung San Suu Kyi (proiettata, non a caso, in questi giorni, nei cinema, grazie a Luc Besson). Un passo che sembra quasi un miraggio, se si considera che la reclusione ai domiciliari della donna si è conclusa solo nel novembre del 2010.

La democrazia procede per piccoli passi e questo — come ha detto la neoletta — è solo l’inizio, il primo capitolo di una storia ancora tutta da scrivere. La Nobel birmana è cosciente di essere un’ottima carta in mano al regime, una carta da spendere per ottenere dall’Occidente un alleggerimento delle sanzioni economiche e non soccombere sotto il peso della Cina, ma sa anche che questa partita prevede che una mano la giochi anche lei, simbolo di una giustizia sofferta, amata dal popolo, guardata e seguita con rispetto dalla stampa internazionale.

L’intera Birmania ha tremato qualche settimana fa, quando si è sparsa la voce di un malore della Lady, ora 66enne. La gente ha trovato in questa esile figura, capace di setacciare l’intero Paese pur di raggiungere le popolazioni dei villaggi più remoti (perché «sarà democrazia solo se raggiungerà tutti»), l’espressione dei propri sogni, la possibilità di far sentire la propria voce.
Su Repubblica, venerdì, si definiva Suu Kyi “il Mandela birmano”… la vittoria della Lady sarà anche simbolica, in un Parlamento in cui il regime ha la maggioranza e il 25% dei seggi è ricoperto (per Costituzione) dai militari, ma chissà che non serva alla storia di domani per poter scrivere non solo di una Birmania democratica, ma anche capitoli nuovi in cui si potrà dire di un uomo è “la San Suu Kyi” del suo Paese…


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