Il giornalista partigiano. Un libro da leggere e far leggere a tutti

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E’ appena uscito e ne vogliamo parlare subito, senza aspettare la ricorrenza del 25 aprile. Ne sentiamo l’urgenza. Anche per aiutare tutti noi ad arrivare con un bagaglio in più a quell’appuntamento.

“Il giornalista Partigiano. Conversazioni sul giornalismo con Massimo Rendina”, esponente della Resistenza e giornalista, libro firmato da una grande inviata d’inchiesta come Silvia Resta, è il percorso di un incontro che non è solo un’intervista appassionata. E’ stato ed è, anche per noi lettori, l’incontro con la storia, di un uomo e del nostro Paese, e insieme un’analisi senza sconti sullo stato del giornalismo italiano e sul sogno – naufragato in parte ­– di chi ha combattuto nella Resistenza per una stampa libera e indipendente.
Un testamento sul mestiere di giornalista e sul suo ruolo di servizio pubblico, lasciato da uno degli eroi della lotta al nazifascismo, che fu primo direttore del telegiornale della Rai e ne fu cacciato per disubbidienza alla politica.

Per gentile concessione dell’autrice, pubblichiamo la prefazione, integrale, perché un ricordo così intenso non si può tagliare.

 

“Sono passati una decina di anni da questa storia: dall’incontro tra una cronista che faceva domande sulla libertà di stampa e un vecchio partigiano che era stato giornalista e aveva tutta una vita da raccontare.
Era il 2011, l’anno della legge bavaglio, che Berlusconi, allora al governo, voleva fortemente per mettere un freno alle inchieste giudiziarie che lo riguardavano e alla libertà dei giornalisti di pubblicarle. Era un pesante attacco all’articolo 21 della Costituzione, un colpo alla libertà di espressione.
Tempi difficili per l’informazione. Non bisognava rassegnarsi.
Andai da Massimo Rendina – che allora era vicepresidente dell’Anpi ed era iscritto all’Ordine dei giornalisti di Roma – per fargli firmare un appello del sindacato dei giornalisti. Aderì con entusiasmo.
Lo avevo incontrato due anni prima, alla manifestazione indetta dalla Federazione della stampa in piazza del Popolo, “Giù le mani dall’informazione”. Lui era lì, in prima fila, col suo fazzoletto di partigiano al collo. Quel pomeriggio la piazza si riempì all’inverosimile, oltre ogni previsione degli organizzatori: era forse la prima volta che i giornalisti così massicciamente manifestavano contro il governo e per la libertà insieme a decine di migliaia di donne e uomini cittadine e cittadini che manifestavano. Insieme. Dalla stessa parte. E lui c’era.
Quando andai a trovarlo a casa aveva novantuno anni, era stanco ma ancora lucidissimo e combattivo.
Quell’anno la classifica mondiale di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa ci vedeva sprofondati al sessantunesimo posto, dopo la Lettonia, la Moldavia, dopo Haiti, dopo la Bosnia.
Firmò l’appello mi offrì un caffè, gli feci due domande: come ha fatto il giornalismo italiano a finire così in basso? Com’era nella visione di voi partigiani?Mi rispose: vieni a trovarmi ogni tanto che ne parliamo. Cominciò così questa storia: una serie di incontri periodici che avevano come tema il giornalismo, la comunicazione e i confini della libertà.
Andavo a casa sua, in genere di mattina, e rimanevo un paio di ore, per non stancarlo troppo. Gli facevo domande, suggerivo dei temi, e lui rispondeva intrecciando argomenti profondi con tantissimi straordinari aneddoti della sua vita. Vita professionale – la vita del giornalista – e vita da combattente – quella del partigiano –, che si intrecciavano in un racconto dai tratti a volte quasi epici.
Per me, curiosa cronista ribelle, era come entrare in una miniera di gemme preziose: la sua storia, la sua visione del mondo, il suo senso di libertà, le sue esperienze nel giornalismo, la sua modernità.
Una ventina di incontri che ho registrato con l’iPad: mi sembravano racconti troppo preziosi per lasciarli andare nel vento, e così incisi la sua voce.
Non ricordo esattamente se come e perché decidemmo di interrompere. L’ultimo colloquio è del 2012. Ricordo che a un certo punto lui cominciava a essere malato e io smisi di andare.
Nei nostri dialoghi (ma era lui che parlava, io mi limitavo a sollecitarlo, a fare brevi domande) abbiamo attraversato quasi un secolo di storia: dal fascismo alla guerra partigiana alla sua esperienza in Rai (lui, primo direttore del telegiornale, da cui fu cacciato con l’accusa di essere “comunista”), dalla tivvù bianco e nero al colore, dalla Democrazia cristiana a tangentopoli al ventennio del berlusconismo, con un filo che cuciva, che attraversava tutto: la funzione del giornalismo, ingrediente della democrazia, mestiere bellissimo che – diceva Rendina – si può fare solo nel pubblico interesse dei cittadini.
Posso pubblicare i tuoi racconti? Ma non sono nessuno, mi rispose con eccesso di modestia, e comunque non ora, aspetta che io sia morto, mi disse, aspetta un po’, poi fanne quello che vuoi.
A febbraio 2015 la notizia della sua scomparsa. Scrissi un suo ricordo per “Articolo.21”, in cui ripresi parte delle sue riflessioni. Un anno dopo, nell’anniversario, organizzammo con l’Ordine dei giornalisti di Roma una piccola cerimonia nella sede della Federazione della stampa, con i familiari e rappresentanti dell’Associazione partigiani, per ricordare Max il giornalista, che era uno di noi.
Sono passati dieci anni. Ho riaperto quei file e l’iPad mi ha restituito la sua voce: rauca, profonda, stanca ma piena di sapienza. Mi sono detta: ho aspettato abbastanza, questa storia deve essere condivisa.
E con pazienza, dal primo all’ultimo colloquio, ho trascritto tutto, puntualmente, parola per parola. Le domande, le pause, i ragionamenti interrotti e le ripetizioni.
Questo libro nasce da queste trascrizioni. Lo dico anche per giustificarne lo stile, scarno e non ricercato, che rappresenta però fedelmente il parlato di Massimo Rendina, il suo pensiero. La sua splendida lezione sul giornalismo e sulla libertà.
Ho tolto le mie domande, ho tolto le ripetizioni, non ho aggiunto niente se non la punteggiatura.
Ho dato un ordine alla trascrizione, ne ho fatto una narrazione in prima persona, lasciando quasi integrale questo racconto straordinario di un partigiano rimasto sempre giornalista o di un giornalista rimasto sempre partigiano.
Una lezione per tutti.”
Silvia Resta


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