Il 26 dicembre 2025, nel pieno della sospensione politica di fine anno, Ignazio La Russa, presidente del Senato della Repubblica, pubblica sui propri canali social un video per commemorare la nascita del Movimento Sociale Italiano. È un tempo particolare, quello delle festività. Il Parlamento è fermo, il dibattito pubblico rallenta, l’informazione lavora a ranghi ridotti, l’attenzione collettiva si sposta altrove. Nei palazzi si conosce bene questa dinamica. È la fase in cui i gesti passano con meno attrito, le parole incontrano meno resistenza, le operazioni più controverse possono essere affidate a un registro apparentemente innocuo.
Dentro questa finestra, La Russa sceglie di intervenire su un nodo che non è marginale ma fondativo, la memoria politica della Repubblica. Non lo fa con un atto formale, non in aula, ma con un video confezionato come un messaggio pacato, quasi confidenziale. Pianoforte in sottofondo, tono misurato, lessico rassicurante. È una forma di comunicazione che abbassa le difese e trasforma un’operazione di riscrittura storica in un gesto di normalità.
Il punto però non è lo stile. È la funzione. A parlare non è un commentatore, né un ex militante che rievoca il proprio passato. A parlare è la seconda carica dello Stato. E quando una carica istituzionale di questo livello interviene sulla genealogia del Movimento Sociale Italiano, il discorso smette di essere personale e diventa pubblico, smette di essere memoria e diventa messaggio. Da qui in avanti la questione non riguarda ciò che Ignazio La Russa pensa del MSI, ma ciò che lo Stato, attraverso la sua voce, legittima e restituisce allo spazio pubblico.
Poi arriva la frase che orienta tutto il discorso. “Era il 1946… un gruppo di uomini che erano sconfitti… non si arresero.”
Qui c’è già tutto. L’operazione non è storica, è morale. Sconfitti dalla storia, sconfitti dalla guerra, sconfitti nella militanza per l’Italia fascista e tuttavia elevati a figure di dignità politica perché non si arresero. La Russa non elenca fatti, distribuisce assoluzioni. Sta dicendo che l’errore di quei reduci non è stato ciò che hanno servito, ma il fatto di aver perso. In una Repubblica nata dalla Liberazione, dire “non si arresero” non significa “non si scoraggiarono”, significa “non cedettero sul giudizio”, non cedettero sul senso di ciò che erano stati. È apologia nella forma moderna, quella che evita la divisa e sceglie la sintassi.
Subito dopo arriva il cuore dell’impostura. “Non chiesero neanche per un attimo di tornare indietro” e poi “accettarono il sistema democratico e fondarono un partito.” Questa è la frase che va inchiodata al banco della storia. Accettarono il sistema democratico. Se fosse vero, non esisterebbe il bisogno stesso della Costituzione antifascista, non esisterebbe la XII disposizione transitoria, non esisterebbe la necessità di sorvegliare e reprimere la ricostituzione del disciolto partito fascista. Il Movimento Sociale Italiano nasce nel 1946 non come adesione convinta alla democrazia repubblicana, ma come adattamento forzato di una classe dirigente sconfitta, tollerata perché impossibilitata, non perché convertita.
Il MSI nasce fuori dall’arco costituzionale e vi resterà per decenni. Non partecipa alla Costituente perché non riconosce la legittimità della Liberazione. Non riconosce la Resistenza come fondamento, ma la interpreta come una parentesi violenta, una guerra civile da relativizzare. La Russa chiama “sociale” la seconda parola del nome come se fosse una gentilezza verso il popolo. Ma “sociale” è anche richiamo diretto alla Repubblica Sociale Italiana, alla sua mitologia di guerra civile, al lessico della socializzazione, alla narrazione repubblichina secondo cui Salò sarebbe stato il fascismo autentico, tradito dai moderati e sconfitto solo dalla forza.
Poi arriva la formula tossica, presentata come saggezza. “Non rinnegare… ma anche non restaurare.” Non rinnegare. È scritto lì. La Russa lo ripete e lo spiega con benevolenza. Non rinnegavano il loro passato. Il passato che non si rinnega non è una biografia neutra. È la militanza nella Repubblica Sociale Italiana, la scelta collaborazionista sotto occupazione nazista, la guerra contro i partigiani, i rastrellamenti, i bandi di morte, la propaganda razzista del regime. Quando un rappresentante delle istituzioni riabilita come “passato non rinnegato” ciò che la Repubblica ha fondato la propria legittimità nel sconfiggere, compie un atto politico contro la Repubblica.
Ed è qui che la narrazione di La Russa crolla sotto il peso dei nomi che sceglie di non pronunciare. Perché quei vinti che non si arresero non erano figure indistinte, ma dirigenti, gerarchi, militari della Repubblica Sociale Italiana che nel MSI trovarono continuità politica e legittimazione pubblica.
Rodolfo Graziani è il caso più clamoroso. Generale del colonialismo fascista, responsabile delle deportazioni di massa in Libia, dell’uso dei gas in Etiopia, ministro della Difesa della RSI, criminale di guerra condannato per collaborazionismo. Graziani non viene rimosso, né isolato. Viene accolto. Diventa presidente onorario del MSI nei primi anni Cinquanta. Un criminale di guerra trasformato in riferimento simbolico. Non un incidente, ma una scelta identitaria.
Accanto a lui transitano uomini dell’apparato repubblichino e fascista che non rinnegano nulla e nulla vengono chiamati a rinnegare. Dirigenti del Partito Fascista Repubblicano, ufficiali della Guardia Nazionale Repubblicana, quadri militari della RSI che, grazie all’amnistia del 1946, rientrano nella vita politica senza alcun processo di verità. L’amnistia Togliatti, spesso raccontata come pacificazione, diventa nei fatti lo strumento che consente la sopravvivenza organizzata del fascismo sconfitto. Il MSI è anche il contenitore di questa rimozione.
Dentro questa continuità stanno Giorgio Almirante e Pino Romualdi. Romualdi, dirigente del PFR, uomo dell’apparato politico della RSI, condannato nel dopoguerra per collaborazionismo, è tra i fondatori del MSI e ne costruisce l’ossatura organizzativa. Almirante è il volto pubblico. Dirigente della RSI, capo di gabinetto del ministro Mezzasoma, firmatario nel 1944 di bandi che ordinano la fucilazione dei partigiani e dei renitenti alla leva. Atti amministrativi di morte firmati mentre l’Italia è sotto occupazione nazista.
Non si tratta di folclore. La storia giudiziaria lo dimostra. Il Parlamento concesse l’autorizzazione a procedere contro Almirante per il reato di ricostituzione del partito fascista. Negli anni Settanta il suo nome compare anche in un’inchiesta per favoreggiamento nella latitanza di un terrorista coinvolto nella strage di Peteano. Beneficiò dell’amnistia prima che il processo iniziasse. Anche qui non servono aggettivi. Basta dire che la biografia politica del leader missino incrocia la zona nera della strategia della tensione.
Attorno a questo nucleo si muove l’area eversiva. Pino Rauti, volontario della RSI, fondatore di Ordine Nuovo, organizzazione neofascista sciolta per legge. Giorgio Pisanò, volontario repubblichino, propagandista, dirigente MSI. Mirko Tremaglia, volontario nella RSI, militante della continuità missina fin dall’immediato dopoguerra. Uomini che costruiscono una memoria alternativa alla Resistenza, una narrazione simmetrica che rovescia vittime e carnefici.
E poi c’è Junio Valerio Borghese. Comandante della Xª MAS, reparto responsabile di torture, rastrellamenti, esecuzioni di partigiani e civili, collaboratore delle SS. Borghese non è una scheggia impazzita. È presidente del MSI nei primi anni Cinquanta. È l’uomo che nel 1970 organizza un tentato colpo di Stato. Prima la guerra civile contro la Resistenza, poi l’ingresso nel circuito politico, poi il ritorno dell’opzione eversiva quando la storia sembra riaprirsi. Questa è la smentita definitiva della favola di La Russa.
Quando il presidente del Senato dice che quei reduci non tentarono di sovvertire con la forza, ignora consapevolmente che la Repubblica è stata attraversata da tentativi di destabilizzazione sistematica, da stragi, depistaggi, strategie della tensione in cui l’area neofascista ha avuto ruoli accertati o contiguità politiche. Il MSI non è sempre imputabile penalmente, ma è politicamente permeabile a quell’universo. Funziona come retroterra, come legittimazione pubblica di una cultura che considera la violenza un’opzione latente.
C’è però un altro elemento che rende questo video tutt’altro che neutro. La storia politica di Ignazio La Russa non è soltanto una militanza individuale. È una storia familiare. Una genealogia che attraversa il fascismo, la Repubblica Sociale Italiana e il dopoguerra senza mai una vera cesura. Il padre di La Russa fu dirigente fascista a Paternò, podestà durante il regime. Lo zio ebbe incarichi nell’amministrazione repubblichina. Non si tratta di colpe ereditarie, ma di un dato storico. La famiglia La Russa appartiene a quella classe dirigente locale prodotta dal fascismo, che la sconfitta del 1945 non ha cancellato, ma riconvertito.
Un’inchiesta di Report ha ricostruito questa traiettoria mostrando come quella continuità non sia stata solo ideologica, ma anche materiale. Posizioni, relazioni, potere, capacità di attraversare i cambiamenti politici senza mai pagare un prezzo di rottura. Non un romanzo familiare, ma una storia di tinte nere, fatta di adattamento e persistenza. È anche per questo che il discorso di La Russa sul MSI non suona come una rievocazione distaccata. È una narrazione dall’interno. È la rivendicazione di una continuità che non è solo simbolica, ma biografica e sociale.
Quando La Russa parla di uomini che non si arresero, quando parla di continuità come valore, quando invita a non dimenticare, non sta facendo cultura. Sta normalizzando una storia che riguarda anche la propria origine politica e familiare. Sta rendendo legittimo ciò che la Repubblica aveva scelto di confinare fuori dal proprio patto fondativo.
Enrico Berlinguer lo disse con una chiarezza che oggi sembra perduta. Il MSI non è una destra come le altre. È un partito che non riconosce la Resistenza e quindi non può essere parte del patto democratico. “Quando vi siete trovati di fronte voi fascisti repubblicani, i partigiani siete sempre scappati.” Non è una stoccata. È la riaffermazione del punto originario. La Repubblica è nata perché qualcuno non è scappato.
Per questo il video di Ignazio La Russa non è una semplice provocazione. È un attacco frontale ai valori nati dalla lotta di Liberazione e iscritti nella Costituzione antifascista. Non perché racconti una memoria privata, ma perché usa una carica istituzionale per restituire dignità politica a una genealogia che la Repubblica aveva posto fuori dall’arco costituzionale e fuori dalla legittimità morale.
Resta l’ultima domanda. Come siamo arrivati al punto in cui la seconda carica dello Stato può parlare di continuità riferita al MSI senza che la parola Costituzione suoni come un allarme. Forse perché abbiamo confuso la pacificazione con l’oblio. Forse perché l’antifascismo è stato ridotto a rituale. Ma una cosa è certa. Quando la continuità con la RSI viene celebrata come amore, la Repubblica non viene ricordata. Viene tradita.
