Giornalismo sotto attacco in Italia

Vie dell’apartheid e città sfregiate. Il reportage sulla Cisgiordania

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In esclusiva per Articolo21 la seconda puntata del reportage di Sandra Cecchi, giornalista Rai, ex Tg2 appena rientrata dai territori occupati. 
Un viaggio a contatto diretto con la popolazione, i comitati popolari di resistenza, tante associazioni e gruppi giovanili che lanciano un unico grido d’aiuto alla comunità internazionale: “Non dimenticateci o il destino della Cisgiordania sarà diventare un’altra Gaza”.

La vita quotidiana dei palestinesi sotto occupazione è ostaggio dei checkpoint. Dal 7 ottobre ne sono stati installati 800 in più. Aprono e chiudono senza preavviso, a totale piacimento degli israeliani. Come le famigerate barriere gialle che bloccano gli ingressi anche a città e villaggi della zona A sotto piena giurisdizione dell’ANP. Accade che, dopo una giornata di lavoro iniziata magari alle 6 del mattino, la sera si trovi la barriera chiusa e non si possa far rientro nelle proprie abitazioni.

O si chiede ospitalità ad amici e parenti, oppure si dorme in auto. Chi può permetterselo ha due macchine: una da lasciare dentro il checkpoint e l’altra fuori. In questi giorni la mobilità per i palestinesi è ancora più drammatica. Dopo l’attentato del 18 settembre al ponte Allenby con la morte di due soldati israeliani, il varco verso la Giordania è chiuso a singhiozzo, ovviamente a discrezione del Cogat.

Si vuole bloccare il traffico di persone e merci, soprattutto aiuti per la Striscia di Gaza. Anche noi abbiamo subito gli arbitri del governo di Netanyahu & co. Il giorno del rientro non abbiamo potuto passare il confine come chiunque non fosse israeliano e viaggiasse con targa gialla (quelle palestinesi sono verdi). Ci siamo riversati insieme ad altre centinaia di persone al valico nord. Ore di attesa a 40 gradi, aereo perso e rientro in Italia con un giorno di ritardo. Piccolo assaggio dell’inferno a cui devono piegarsi ogni santo giorno lavoratori e studenti di Palestina.

Sono costretti a percorrere le cosiddette strade dell’apartheid, tortuose deviazioni e sottopassaggi che costringono a lunghi giri perché in Cisgiordania e a Gerusalemme Est le corsie veloci sono riservate esclusivamente a israeliani e coloni. Per arrivare a Hebron, una trentina di chilometri a sud di Betlemme, tra checkpoint chiusi, ricalcoli del percorso e code abbiamo impiegato quasi tre ore. Ne è valsa la pena non solo e non tanto per gli edifici ottomani e mamelucchi della città vecchia, ma soprattutto perché Hebron è un cantiere avanzato dell’apartheid e delle tattiche di occupazione.

Nel 1997, con un accordo (odiatissimo) firmato tra Netanyahu e Arafat, la città è stata divisa in due: zona H1 sotto controllo ANP e zona H2 controllata da Tel Aviv, ma dove risiedono oltre 20mila palestinesi. Anche la strada principale, Hebron Rd, è stata tagliata a metà da filo spinato e numerosi checkpoint, portando alla chiusura del suk e del famoso mercato dell’oro. Col tempo, ovviamente, i coloni si sono assai allargati costruendo in altezza abitazioni, uffici, scuole.

Camminando per le viuzze del centro vediamo molte reti metalliche tese tra un palazzo e l’altro: sono state messe per proteggere i passanti dai rifiuti gettati dai sionisti dei piani alti. Uno dei tanti, continui gesti di sfregio degli occupanti verso gli occupati. Hebron è la città del sindaco Abu Sneina, arrestato all’inizio di settembre dall’IDF durante un raid nella sua abitazione. Incontriamo i suoi assessori, tuttora all’oscuro delle accuse nei suoi confronti; è in detenzione amministrativa, la stessa a cui è stato sottoposto per anni Patrick Zaki. Nessun contatto con i familiari né con gli avvocati, né certezza dei tempi di detenzione. In Cisgiordania ci sono 3.500 detenuti in queste condizioni.

“Sono i nostri ostaggi”, ci dice la vicesindaca di Hebron. Eppure nessuno si perde d’animo, resistono pacificamente all’occupazione e ripetono all’infinito che mai e poi mai lasceranno la loro terra. Siamo stati testimoni di incredibili storie di resilienza, come le due sorelle novantenni che continuano imperterrite a coltivare i loro campi circondati dagli insediamenti dell’ultradestra. Oppure le 28 famiglie sfollate dai tempi della Nakba nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est: qui l’apartheid e la pulizia etnica avvengono a colpi di demolizioni, ordini di sgombero e continui raid dei coloni.

Bisogna davvero avere una dose altissima di sumud per passare tutti i giorni davanti a quella che era la tua casa, requisita da un fanatico fatto venire dall’America, che per puro spregio la tiene sporchissima, riempiendo il giardino di rifiuti di ogni genere, o subire le invettive e le minacce dei bambini ultraortodossi dall’altra parte della strada.

Tanta oppressione e cattiveria qui non sono motivate dal pericolo terrorismo. In Cisgiordania non governa Hamas, ma da una debolissima e screditata autorità palestinese, le cui parole sul 7 ottobre sono chiare: tali azioni non rappresentano il popolo palestinese né la sua giusta lotta per la libertà e l’indipendenza. L’ultima sacca di resistenza armata si è avuta a Nablus con la Fossa dei Leoni, organizzazione paramilitare nata nel 2022, macchiatasi dell’uccisione di decine di israeliani, presto sgominata dall’esercito anche grazie a collaborazionisti palestinesi.

La vendetta dell’IDF è stata, ed è tuttora, spietata: raid notturni, distruzione di case, arresti, uccisioni. Un padre ci racconta che il figlio di 9 anni è stato colpito da un proiettile mentre era affacciato alla finestra durante un rastrellamento; i soldati, nonostante fosse già morto, gli hanno sparato il colpo di grazia. Mi sono tornati in mente i racconti di mia madre sui nazisti.

L’obiettivo dell’attuale governo con i ministri suprematisti e razzisti Ben-Gvir e Smotrich è annettersi più territori possibile, sbarazzandosi di chi ci vive sopra o di cosa vi è coltivato. Anche ad Haifa e Akri, belle cittadine sul mare, è in corso da tempo una politica che mira a cacciare gli sfollati della Nakba dalle abitazioni dove vivono dal 1948. In tutti questi anni è stato loro vietato fare lavori di ristrutturazione e adeguamento.

Ed ora il governo vuole cacciare le famiglie della quarta generazione di profughi interni per trasformare gli edifici del centro storico, patrimonio Unesco, in lussuosi resort. Sono già apparsi annunci immobiliari. La riviera israeliana.

(ph. Il Manifesto)


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