Si conclude con il campo profughi di Jenin il reportage esclusivo per Articolo 21 di Sandra Cecchi, giornalista Rai (ex TG2) di ritorno dai Territori occupati.
Quel che resta del campo profughi di Jenin sono solo spettrali macerie. Dopo quasi 200 giorni di assedio tutto è distrutto: 700 edifici fatti saltare in aria, scuole e infrastrutture bombardate. Ventimila profughi costretti ad andarsene e cercare ospitalità da amici e parenti oppure in rifugi di fortuna, di nuovo sfollati dopo la Nakba.
L’Idf ha sbarrato le rovine del campo di Jenin con le solite pesanti barriere gialle (ben 5 in un raggio di appena mezzo chilometro quadrato) e cumuli di terra per impedire a chi vi ha abitato per generazioni di rimetterci piede. Poche settimane fa ci hanno provato quattro ragazzi nel tentativo di recuperare pochi oggetti personali. Sono stati freddati dall’esercito.
Nel mesto (e pericoloso) giro intorno al campo ci accompagna Mustafa Sheta del Freedom Theatre, un progetto culturale nato nel 1987 sopravvissuto miracolosamente ad arresti, incursioni e omicidi.
“A Jenin c’è stata la prova generale di quello che temiamo possa accadere negli altri campi profughi della Cisgiordania. Tutti gli sfollati possono mantenere lo status di rifugiato finche’ vivono all’interno dei campi sotto l’egida dell’UNHRC. Per ora quelli di Jenin restano rifugiati, ma sono certo che il governo Netanyahu troverà un cavillo legale per dire ‘ecco non vivete più nei campi e dunque non siete più profughi’ cancellando così il diritto al ritorno dei palestinesi sancito nel 1948 dall’Onu. Il nostro futuro – conclude – è molto incerto e i giovani iniziano a lasciare il paese. Mio figlio è andato con venti amici in Turchia. Ora sono in Kosovo, sperano di arrivare in Germania”. Taccio, ma per questi ragazzi palestinesi fuggiti dall’incubo sionista dell’occupazione vedo profilarsi quello della rotta balcanica con le enormi difficoltà per raggiungere l’Europa tragicamente note a tutti.
L’ingresso del campo profughi di Aida vicino Betlemme è una enorme serratura sormontata da una chiave. E’ il simbolo del ritorno a casa dei palestinesi cacciati dalle loro città e villaggi nel 48. Molti lasciarono le porte di casa aperte con la chiave nella toppa, convinti di tornare presto.
Nel campo di Aida ci sono abitazioni e ospedali nuovi, caffè e uffici ben attrezzati. Parvenza di una vita normale se non fosse per il muro visibile da ogni punto. La barriera voluta da Israele corre per oltre 750 chilometri lungo la linea verde (il confine della Cisgiordania stabilito nel 1967). Taglia in due quartieri, strade, abitazioni a Gerusalemme est come a Betlemme. Queste due città sono semideserte senza turismo da anni (prima il covid poi il 7 ottobre): tristemente vuote le stradine di Betlemme di solito zeppe di pellegrini, senza acquirenti i pochi negozietti, molte le serrande chiuse; vuota anche la spianata delle moschee. Un drastico crollo del turismo che aggrava la situazione economica dei palestinesi, gravati da pesanti tasse governative.
Chiunque incontriamo – gente comune, autorità, associazioni – ripete gli stessi accorati appelli: raccontate cosa sta succedendo in Cisgiordania, rischiamo di diventare la nuova Gaza, l’Europa ci deve aiutare – dicono in coro – con una fiducia nella Ue assai più ampia della nostra, servono sanzioni per Israele come ne sono state fatte per Putin, è il loro refrein.
Incontriamo Daphna Golan, ebrea antisionista, docente universitaria e cofondatrice di B’Tselem ad Haifa: dovete boicottarci – ci dice – sanzionarci, fermare l’invio di armi, mettere fine a questa catastrofe, noi non ci siamo riusciti, mi spiace, ora tocca a voi.
Cosa ne sarà della Palestina? L’interrogativo mi accompagna per tutto il mio viaggio nei territori occupati: la resilienza e la speranza della gente contro l’oppressione e la forza sioniste, Davide contro Golia. Oltretutto senza una leadership forte con l’ANP scredita e svuotata di consensi. A Ramallah, capitale politica della Palestina e ex quartier generale di Arafat, incontriamo Fatwa Barghouti moglie ed avvocato di Marwan da 23 anni nelle carceri israeliane con l’accusa – sempre respinta – di aver pianificato tre attacchi terroristici durante a terza intifada, provocatoriamente visitato settimane fa dall’ultrasionista Ben-Gvir. La sua figura sta emergendo come possisibile futuro leader di una rinnovata Autorità palestinese, quando e se mai uscirà di prigione. Un futuro assai incerto per lui. E per la Palestina tutta.
3.fine
Le altre due puntate del reportage:
I predatori di terre e di acqua
Vie dell’apartheid e città sfregiate
