Ciò che mi aveva colpito di Enzo Tinarelli, nel periodo in cui insegnavamo entrambi all’Accademia di Carrara, ancor prima del suo talento innato era stata la spiccata indole di maestro. Forse suggestionato dalla sua origine ravennate, mi è sempre apparso un mosaicista di antica scuola, di remotissime radici, a dispetto della modernità di tante sue opere, specialmente le più recenti di impronta informale, ispirate alle inestricabili e a volte oscure contorsioni della genetica. Anche il suo sembiante, riflettendoci bene, il sorriso arguto e dissimulato, lo accumuna agli artisti della corte bizantina, lo colloca idealmente tra quei dignitari disposti in processione che affollano le rappresentazioni liturgiche degli imperatori romani d’Oriente. Enzo figurerebbe benissimo alla corte di Teodora, non è difficile immaginarlo tra i suoi devoti, prefetto delle decorazioni per le sale del trono o dei banchetti, o delle inviolabili alcove. Non esagero, la prima impressione che ne ebbi, incontrandolo, non era di un docente nella sua aula, ma di un mastro di bottega, sorridente, fervoroso, circondato da studenti operosi che pendevano dalle sue labbra e silenziosamente, a turno, andavano a sbirciare da vicino in gesti rituali con cui lui spezzava al martelletto le pietruzze colorate. Una tecnica arcaica che si perde nella memoria. Indossava un camice ordinario, ma io lo vedevo benissimo con la tunichetta ellenica, corta e stretta in vita, inginocchiato sulle figure di Piazza Armerina, quei racconti animati di cacce e di amori che si giocano l’eccellenza con la pittura, uscendone il più delle volte vittoriosi. Dal momento che nel mosaico non c’è fissità ma un percettibile dinamismo interno, la luce non provenendo dalla pennellata ma dall’accostamento di tessere mobile e colorate; qualcosa di simile ai fotogrammi cinematografici, allo stop motion nel cinema, che cattura senza sforzo l’osservatore. Un proto cinema, un effetto schermo prodotto dalla superficie vetrosa.
Enzo si muove a suo agio in quell’incantesimo, è il suo habitat, di cui è al contempo autore e illusionista. L’impressione che trasmette è che mosaicisti si nasca, non si diventi; in virtù proprio di un altro sguardo, di un diverso principio compositivo. Lo sciame di pietruzze colorate vanno a disporsi nell’unico modo possibile presente nella visione dell’artista. Concepimento e stile agiscono. Come ciò avvenga, in ubbidienza a quale misterioso imperativo, non va indagato. Si resta soltanto folgorati, in estatica ammirazione, di fronte alle opere d’arte musiva di Ravenna, di Classe, di Venezia, o in Sicilia per epoche ancora più lontane; oppure attualissime, passeggiando sulla pavimentazione del Foro Italico senza rialzare gli occhi, soggiogati da quell’incantesimo pittorico concretissimo e astratto.
Poi a Carrara, entrando nella cella del collega ‘bizantino’, mi è sembrato di capire qualcosa di più.
Tinarelli mi ha insegnato a riconoscere la specificità del suo lavoro collocato tra la pittura, l’affresco, l’arazzo, il puzzle, il disegno geometrico, l’intarsio, la poesia visiva, il simbolo figurato. Mostrandomi la manualità prodigiosa; se il tempio crollasse Tinarelli lo ricostruirebbe ancora più maestoso radunando tutti i frammenti.
Chi è Tinarelli? Quante volte mi sono posto questa domanda, anche di recente quando in complicità con la sua compagna di vita e d’arte, Suzanne Spahi, ha riempito Carrara di rose mosaicate provenienti da artisti di tutto il mondo. Ricordate Gertrude Stein? “Una rosa è una rosa è una rosa”. E non c’è discussione. Un’iniziativa fiabesca la sua, da evento visionario: Roses for Carrara 2021-2024, installazione stabile delle opere sul muro che sorge in fondo a Via Del Cavatore, “più di 500 rose differenti per dimensioni, colori, materiali e tecniche di lavorazione”. Mi ricorda da vicino la collezione, interamente di sua mano, che dedicò ai cuori, quaranta mi pare, ma destinati a crescere in ogni variante semantica, verbale e figurativa.
Di nuovo, pertanto, mi rivolgo l’interrogativo ponendomi di fronte alla pubblicazione del Catalogo generale di questo artista originale ed estroso, opportunamente intitolato “Assolo per mosaico” Opere 1979- 2024. Quarantacinque anni di incessante lavoro. Si sfoglia il volume lasciandosi scivolare pagina dopo pagina sulla corrente di un fiume generoso, come è la sua vita, ricolma di lavoro, di affetti, di energia esuberante e trascinante.
Credo che il suo segreto sia riposto proprio in questa doppia natura di maestro bizantino e giocoliere d’accademia. L’importante, come sempre, è soffermarsi sulle opere, non frugare nelle intenzioni. Tinarelli è un esperto d’arte come pochi altri, ragionatore di estetica, agguerrito storico del mosaico e anche buon narratore quando si abbandona all’emozione delle proprie esperienze. Tuttavia l’intellettualità non gli fa schermo dal momento che creando attinge ad altri strati della coscienza e di inconsapevolezza.
In Tinarelli la qualità distintiva è il prevalere del sogno, del gioco; predomina il puer aeternus, l’eterno fanciullo, il quale incarna nel mito le potenzialità inespresse e la capacità di rinnovamento della vita. Dire che le tessere sono il suo lego, sarebbe fargli un torto, ma non dirlo sarebbe un torto ancora maggiore. Perché si rimane ingenuamente incantati dalle sue trovate.
Penso al tavolo ricoperto da una tovaglia arabescata, affondato nella cripta della Basilica di San Francesco sommersa dall’inondazione; penso ai libri salvati dalle acque, “vittime dell’alluvione che nel 2003 aveva allagato Carrara”; penso al “Tremito campestre”, il drappo che scivola da un banchetto da picnic riversando sull’erba sedici rose bianche; oppure alle “piste funamboliche”, o al Pinocchio con un “palmo di naso”, afferrato dalla mano guantata di bianco del carabiniere. Penso a quella dichiarazione di poetica così evidente ne “La campana”, il divertimento per eccellenza di ogni bambino, intitolato non a caso “Il gioco del mosaico”. E poi “Dante con la mosca” tratteggiato ne Il giardino del labirinto; e ancora “Viaggio Bizantino”, folgorante per la sintesi assoluta del mito e della fede; oppure quel verso visivo, ungarettiano, di una foglia caduta e adagiata sulla pietra. Mirabile poi l’omaggio a Mirò: una mano aperta e tante tessere colorate che sembrano luccicare in cielo come stelle cadenti, accompagnate da un gioco di parole mosaicato: “ mo…sai cosa diRò? Mano!”
Sto debordando. Ma come resistere a quella cravatta che ho sotto gli occhi, policroma su camicia grigia e con titolo da sciarada: “Cravatta per camicielise di fosfenicolati”.. E il Quovo, un uovo a cuore? E le fontane simili a totem circensi? E l’Etoile, un astro d’oro raggiante nello spazio infinito, “Omaggio a Galileo Galilei”? E i soffici tappeti? E le cortine pendenti, e i finti sipari? E il Piglianuvole? Che cos’è? Ma è semplice, una composizione di dieci mollette da bucato in marmo statuario e smalti, capaci di catturare le nuvole che veleggiano morbide e bianche nel cielo.
Infine le creature acquatiche. Quel grande pesce che si fregia del nome Idro, dio delle lagune e padre di Enzo, deceduto quasi a cento anni, cacciatore della bassa, infallibile divoratore di anguille nel delta del Po, figlio del profondo polesine, al punto che le sue ceneri sono state disperse nell’isola degli Spinaroni, dove aveva combattuto da partigiano per la libertà dalla tirannia. Un’autentica leggenda nella sua cittadina, che porta il nome di Anita in onore all’eroica compagna di Garibaldi.
Ancora un ultimo accenno al ritratto che conclude il catalogo, e che pensavo fosse un autoritratto in sembiante da clown, quale Enzo neanche troppo segretamente aspira ad essere. Invece è un omaggio al grande mosaicista francese Gérard Brand che a più di 80 anni non manca un solo giorno di lavorare, eterno nell’arte. Il ritratto fa parte di un cospicuo ciclo di opere dedicate ai più celebri maestri del mosaico, saranno ormai almeno venti, che l’autore spiega così: “Ciascuna è una scultura / libro/ diario musivo, in cui sono incastonati oggetti, utensili, memorie di ciascun artista, veri oggetti sacri dedicati agli amici”.
Dopo tanto discettare, vi confido perché Tinarelli è per me un artista da amare. Non solo per quelle interminabili spianatoie di cappelletti che prepara con le proprie mani ogni santo Natale, e dispone in precisissimo ordine, opere musive in pasta sfoglia dedicate alla gola: che genio! Ma non basta. La vera ragione della mia commozione risiede nella dedica che nel suo catalogo Enzo rivolge, pensate, non al critico influente e di moda, ma alla sua maestra:
“A Virginia Ferruzzi Manzoni, alla mia cara maestra delle elementari, che per cinque anni ininterrotti ha forgiato il bambino di campagna. …Sui fogli e con i colori da lei regalati, davo forma a quei vapori invisibili che emanavano durante le lezioni e che tramutavo in sogni, immaginandomi giullare, poeta, imitatore, prestigiatore, attore, pittore”.
E che pittore! Se vedrete le sue tele giovanili. Ecco come nasce un vero artista.
