Giornalismo sotto attacco in Italia

La necessità di riformare la sanità pubblica (e pure quella privata). All’Italia il record di morti in Europa per infezioni ospedaliere

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I dati dello scorso anno certificano più di 11.000 morti in Italia per infezioni nosocomiali, che vuole dire prese in ospedali e case di cura. L’acronimo usato è ICA, infezioni correlate all’assistenza. Complessivamente, fra strutture pubbliche e private, si stimano 530.000 casi di ICA ogni anno.

La morte di due neonati prematuri all’ospedale di Bolzano riapre la questione, tenuta dolosamente coperta dalla politica ma anche e soprattutto dallo stesso mondo della sanità, pubblica ma anche privata.

I 5 milioni di morti nel mondo a causa di queste infezioni sono stati “scoperti” spesso a causa dell’antibiotico resistenza, che consiste nel fatto che dando tantissimi antibiotici, e mangiando cibi che ne contengono, spesso questi principi attivi diventano impotenti di fronte ad alcun e infezioni virali e batteriche. Sfido chiunque sia stato in ospedale in qualsiasi città italiana o abbia avuto un familiare ricoverato a non ricordare di aver poi dovuto combattere almeno contro una infezione urinaria, per sentirsi dire poi dai medici, con tono sconsolato, è colpa dei cateteri. Eh no, non basta!

Qualcuno dovrà dimostrare che i bimbi prematuri, portati in ospedale per essere salvati, hanno preso il batterio “serratia marcenscens” per una tragica fatalità. Proprio nel reparto dove dovevano essere curati, che ora è stato sgomberato.

Sappiamo benissimo che la sterilità assoluta non esiste e che una certa percentuale di rischio è connessa all’attività ospedaliera in sé, ma non è accettabile che quello ce era il miglior sistema sanitario al mondo, il nostro, sia diventato il peggio del peggio per le morti da infezioni prese in ospedale.

Quando la politica finanzia meno la sanità pubblica, come avviene attualmente, non tiene minimamente conto di tutto questo. I medici lo ammettono e cercano anche di proporre soluzioni. Perché anche un primario oggi deve rispondere al direttore sanitario e ai dirigenti delle ASL anche di quanti guanti, di quante garze sterili, di quanti cateteri, di quante traverse, di quanti pannoloni si consumano al giorno nel suo reparto. Insomma, è un problema principalmente di soldi!

L’igiene e la sterilità in ambiente ospedaliero si ottiene con le buone pratiche, certamente, ma anche con gli strumenti indispensabili per ottenere i livelli alti di pulizia e di sicurezza.

I medici sono per certi versi le prime vittime di questo dramma definito “sepsis” e che da tempo hanno denunciato, inascoltati dalla burocrazia sanitaria e soprattutto dalla politica nazionale e regionale.

La Società italiana di malattie infettive e tropicali (SIMIT) ha proposto due anni fa una serie di iniziative per organizzare meglio la strategia di contrasto a questo problema di salute pubblica, sulla scorta del Piano nazionale di contrasto all’antibiotico-resistenza (PNCAR) 2022-2025. I progetti sono stati illustrati alla Camera dei Deputati con una rappresentanza di parlamentari e dirigenti del Ministero della Salute, da società scientifiche e a rappresentanti delle associazioni del territorio.

Poi, non vedendo seguire i fatti alle parole, si sono uniti con altre organizzazioni per presentare un progetto organico costruendo un’adeguata normativa. E’ stato redatto il testo di una proposta di legge che a febbraio 2023 è stato presentato alla Camera dei Deputati. La legge raggruppa quanto è già presente in materia; guida il comportamento delle direzioni sanitarie per abbattere il numero di infezioni nosocomiali; crea una banca dati nazionale obbligando tutti gli ospedali a segnalare i casi del proprio centro e le relative terapie e indica i protocolli da seguire senza eccezioni.

Con queste regole il disastro delle infezioni ospedaliere potrebbe essere ridotto almeno di un 30%, a patto che segua di pari passo il rinnovamento complessivo delle strutture ospedaliere troppo datate, dove ancora permangono, nonostante il Covid, sistemi di aereazione e di conservazione dei presidi sanitari davvero inadeguati.

Ma invece siamo in fondo alla classifica anche per l’uso di antibiotici, somministrati al 44,7% dei degenti contro una media europea del 33,7%. E così il cane si morde la coda, perché l’uso tanto massiccio di antimicrobici fa nascere superbatteri resistenti agli stessi farmaci. Tra i microbi più diffusi c’è la Klebsiella, che infetta le vie urinarie con una mortalità che arriva alla metà dei casi, lo Pseudomonas che provoca infezioni osteoarticolari con mortalità al 70%, l’Escherichia coli che causa diarrea anche sanguinolenta, il Clostridium difficile che prolifera nell’intestino con una mortalità a 30 giorni che si avvicina al 30%.

Come documenta un’indagine dell’Istituto superiore di sanità, dopo un intervento chirurgico si va dal record delle 500 infezioni ogni 15mila dimessi contratte nella piccola Valle d’Aosta alle sole 70 dell’Abruzzo, passando per le 454 della Liguria e dell’Emilia-Romagna, le 300 della Lombardia, le 211 del Lazio. In queste due regioni, dove la sanità privata è più diffusa (a Milano e a Roma soprattutto) i dati non sono altissimi, perché in alcuni poli di eccellenza l’investimento sulla prevenzione delle infezioni è più massiccio. Fatto sta – documenta il rapporto dell’Ecdc – che l’impatto sul nostro SSN è enorme, con 2,7 milioni di posti letto occupati proprio a causa di queste infezioni, con un costo che arriva a 2,4 miliardi di euro l’anno.

I neonati di Bolzano sono solo le ultime vittime di una catena tragica nella quale può finire triturato ciascuno di noi. E che, ancora una volta, travolge prima di tutto gli anziani, i pazienti con malattie croniche e i bambini.

 


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