Ha senz’altro ragione Andrea Manzella (“Corriere della Sera” del 13 luglio 2025) a invocare una “rinascita istituzionale” europea in cui l’Italia potrebbe giocare la sua partita, non foss’altro perché “qui qualcuno per primo pensò la politica nella sua dimensione pre-statuale”. Ed è, in definitiva, questo il motivo intimo, profondo, per cui, nonostante tutto, ci ostiniamo a ritenere importante l’espressione del voto libero, si tratti di elezioni politiche, di referendum, o di consultazioni europee. Un faro da tenere sempre acceso per illuminare il transito “bidirezionale” fra il passato e il futuro, all’insegna della responsabilità e della coesione sociale.
Ciò premesso, come ha recentemente osservato Anna Stomeo (“Il Senso della Repubblica” – luglio 2025) non è più sufficiente farsi laudatores temporis acti.
“Non stiamo – infatti – assistendo o, almeno, non solo, a un mero processo di involuzione reazionaria, sovranista e conservatrice, come pure attestano le destre imperanti nei governi occidentali con i loro decreti anti-libertari, ma a un cambiamento più profondo, che attiene ai meccanismi di autoriproduzione del sistema. Stiamo uscendo da un sogno, da un’illusione di contenimento del potere capitalistico attraverso la democrazia liberale, durato, in Occidente, poco più di mezzo secolo.”
Di queste circostanze gli storici e gli intellettuali più attenti hanno il dovere di prendere atto senza cedimenti nostalgici perché la fase di transizione, con tutti i cambi paradigmatici in atto, è drammatica e impregnata di rischi come mai prima era accaduto. Col senno di poi, possiamo, certo, tornare a riflettere o a rivedere le antiche concezioni che interpretarono i fascismi e i nazismi alla guisa di mere parentesi: malattie temporanee di un sistema che comunque aveva la democrazia come perno istituzionale e la libertà e i diritti umani come scopo. Ma i nuovi regimi e i sovranismi che si affacciano hanno gettato spudoratamente ogni maschera. Se in altre parti del mondo certi diritti non sono mai stati assimilati, né declinati, secondo le inflessioni a cui siamo abituati noi “Occidentali”, resta indubbio che anche dalle nostre parti ormai non ci curiamo nemmeno più di salvare le apparenze.
Il sopruso e la violenza costituiscono una sorta di nuova normalità. La libertà viene prima confusa con l’avido arraffare del più forte e poi tranquillamente barattata in nome di una “sicurezza” che assomiglia sempre più alla “protezione” di cui gode il servo della gleba. L’uguaglianza, conseguentemente, resta esposta all’irrisione: una sorta di innaturale e bizzarra aspirazione in un mondo atomizzato, ridotto a regno della più spaventosa solitudine, orfano di ogni forma di solidarietà. Le tecnologie, nel frattempo, possono condizionare le masse, l’ambiente e perfino i flussi demografici come neppure Orwell avrebbe potuto immaginare.
Vengono inoltre mantenute pericolosamente attive le guerre, poiché costituiscono un corollario (economico) del controllo esercitato attraverso un clima di soggezione e di paura imperante. La guerra dei dazi è parte organica di questa necessità “spinoziana”. Sarebbe un fatale errore considerarla come frutto del capriccio di un Trump qualsiasi che, ricordiamolo, è il presidente “democraticamente eletto” della più grande potenza economica mondiale. L’imposizione dei dazi può essere interpretata, nel suo altalenante fibrillare, come uno strumento capace di concentrare ulteriormente le ricchezze residue; per dividere, saccheggiare, l’Europa, influenzare borse e mercati e, non da ultimo, riversare all’esterno il costo del “taglio delle tasse americane” (si veda Roberto Perotti sulla “Stampa” del 14 luglio) e la voragine del debito degli Stati Uniti nella fase (speriamo non estrema) della guerra di logoramento contro l’impero cinese.
I prodromi risalgono a decenni fa, ben prima della guerra ucraina. Ne furono spia le tensioni in Medio oriente, i conflitti per il petrolio, la crisi del 2008 e, più in generale, possiamo aggiungere che il tutto è parte intrinseca di un sistema paradossale che prevede una crescita infinita in un mondo che invece è finito. Siamo cioè a una resa dei conti all’interno di un pianeta ormai troppo piccolo per le grandi concentrazioni economico-finanziarie che oggi sono costrette a spremere il loro stesso habitat vitale, nonostante abbiano potuto e possano impunemente infrangere ogni legge, ogni diritto, ogni confine giuridico, ogni regola di convivenza internazionale e sovranazionale.
Quale strada percorrere? In questo Manzella ha ragione: l’Europa ha generato la tesi e l’antitesi dell’attuale stato di cose. Ha il dovere storico e culturale di individuare una via d’uscita, di scrollarsi di dosso le catene dell’oppressione, cominciando, magari, a costituire un nucleo di “resistenza istituzionale” che potrebbe non coincidere, coi 27 stati che attualmente compongono l’Unione, né con la logica NATO. Gli scenari sono infatti irreversibilmente sparigliati, le divisioni e i cedimenti sono sotto gli occhi di tutti ed è in questi momenti che si deve guardare a una stella polare lontana quando il percorso si fa incerto e si naviga al buio.
