“Sotto le foglie”, di Francois Ozon, Fra, 2025

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Con Hélène Vincent, Josiane Balasko, Ludivine Sagnier, Pierre Lottin, Garlan Erlos.

François Ozon ci riporta alle atmosfere ambigue ed inquietanti che hanno spesso caratterizzato il suo cinema, confrontandosi con uno dei grandi nomi della letteratura del Novecento, Georges Simenon. Il film del cineasta francese non è la trasposizione di un romanzo dello scrittore franco-belga, ma un adattamento del mondo simenoniano, dove il delitto è l’occasione per esplorare le zone d’ombra dell’animo umano. Al centro del film ci sono Michelle, una anziana ex prostituta che vive da anni in campagna, nei pressi di un paesino, sua figlia Valèrie, che vive a Parigi, e Lucas, suo giovanissimo nipote. Nonna e nipotino sono i due personaggi chiave che, pur sapendo della presenza di Vincent, figlio dell’amica di Michelle, Marie-Claude, anch’essa ex prostituta, nella casa parigina di Valérie, il giorno della sua morte, scelgono il silenzio. Non per calcolo, non per strategia, ma per una sorta di istintiva sospensione del giudizio. È in questo gesto, o meglio, in questa rinuncia, che Ozon incarna lo spirito di Simenon: l’uomo non è un essere giudicabile secondo categorie nette di colpa e innocenza, ma un’entità fragile, spesso travolta da eventi più grandi di lui. La decisione di Michelle e Lucas di tacere non è dettata dall’omertà, ma da qualcosa di più profondo, quasi incontrollabile. Come una manifestazione dell’ambiguità morale dell’esistenza.

Non possono, o forse non vogliono, ricondurre la realtà a un giudizio semplice. Sentono, percepiscono, che dentro la morte di Valérie c’è qualcosa che non si lascia raccontare interamente: una rete fitta di legami, desideri, segreti, impulsi e paure che supera i contorni di una verità giudiziaria. La colpa è più una condizione esistenziale che un reato. Ozon, in questo, aderisce a quella che potremmo chiamare la fisiologica imperfezione dell’uomo, un tema caro a Simenon. Non esistono personaggi “colpevoli” o “innocenti” nel senso classico, esistono individui coinvolti in rapporti che li superano, in cui le ragioni di ciascuno si scontrano senza potersi mai armonizzare del tutto. Vincent, da questo punto di vista, non è solo un sospettato, quanto, soprattutto, un impigliato in una trama affettiva e psicologica che lo trascende. E Michelle, madre, nonna e amica protettiva ma non cieca, sceglie di non distruggere ulteriormente ciò che resta della propria famiglia, pur conoscendo il prezzo di questa scelta. Lo stile di Ozon accompagna questa visione con una regia sobria, quasi trattenuta, che lascia spazio ai silenzi, agli sguardi, ai non detti. “Sotto le foglie” non cerca soluzioni, ma restituisce l’opacità dell’esperienza umana. Il suo fascino sta proprio lì, nell’impossibilità di trarre conclusioni definitive. Il film si fa carico di un messaggio profondo e imperscrutabile: la vita non è un processo, ma un enigma. Gli uomini, così complessi, devono convivere con l’impossibilità di sciogliere del tutto i nodi delle proprie relazioni e delle proprie responsabilità. Curiosamente, “Sotto le foglie” sembra seguire le orme di un’altra opera filmica dal forte sapore simenoniano, uscita nei cinema soltanto pochi mesi prima di essa, “L’uomo del bosco”, di Alain Guiraudie, che scruta la difficoltà di comprendere pienamente l’altro, impossibile da ingabbiare entro regole morali fisse.

Entrambi i film ruotano attorno ad una morte, che al di là della legge trova molte spiegazioni nella psicologia dei protagonisti. È questo slittamento tra ciò che accade e ciò che si comprende che unisce profondamente le due opere. Entrambi i film rifiutano di offrire rassicurazioni allo spettatore, non c’è una “verità” che attende di essere scoperta e premiata, né una giustizia che possa trionfare. Al contrario, la verità è sempre sfocata e affettivamente contaminata. Il diritto e l’opinione pubblica, nei due film, appaiono come strumenti grossolani, incapaci di cogliere la sottile trama di motivazioni, debolezze e affetti che legano gli individui tra loro. Ozon, come Guiraudie, mette in scena personaggi che scelgono l’ambiguità affettiva, la sospensione etica, con il bene e il male inevitabilmente mescolati, necessariamente sfumati. In un tempo dominato da narrazioni polarizzate, dove ogni personaggio tende a essere redento o condannato, Ozon e Guiraudie tornano a dire, con parole diverse ma consonanti, che la verità dell’uomo sta nella sua instabilità. “Sotto le foglie” e “L’uomo del bosco” sono due racconti sulla fatica di comprendere l’altro, ma anche sull’esigenza, profondamente umana, di proteggerlo. Così come Simenon si è sempre rifiutato di giudicare i suoi personaggi, preferendo osservarli con una pietà spietata ma compassionevole, Ozon e Guiraudie ci invitano a entrare in mondi che non si lasciano riordinare, ma solo abitare. Non ci chiedono di approvare le scelte dei loro protagonisti, ma di cercare di comprenderle. Perché forse, sotto le foglie, nei boschi o nei salotti delle nostre case, l’enigma più grande resta sempre lo stesso: l’uomo. Simenon ha spesso collocato le sue storie in cittadine di provincia, dove i rapporti sociali sono inestricabilmente legati alla reputazione, alla famiglia, al silenzio. Luoghi dove tutti si conoscono, ma nessuno sa davvero nulla dell’altro. In questi spazi, la colpa non ha bisogno di prove, si avverte, si sussurra, si insinua. Non perché non ci sia empatia o giustizia, ma perché vige una regola più antica, quella della coesistenza silenziosa con l’ombra, con il dubbio.

Nel film di Ozon, la provincia francese non è solo uno sfondo geografico, ma un paesaggio dell’anima. Piccole case, strade vuote, interni domestici silenziosi e stanze piene di sguardi trattenuti. È un territorio in cui tutto sembra immobile, ordinato, tranquillo, e proprio per questo pronto a far esplodere, sotto la superficie, le inquietudini più profonde. Anche per Chabrol, la provincia è il luogo dove le tensioni di classe, i segreti familiari e i compromessi morali vengono a galla sotto forma di piccoli scarti, di silenzi, di azioni solo in apparenza banali. Ozon si inserisce in questa stessa linea, raccontando un’umanità apparentemente ordinaria ma segretamente attraversata da faglie emotive e morali pronte a cedere. François Ozon, come Simenon e Chabrol prima di lui, ci ricorda che non è nell’eccezionale che si cela il dramma umano, ma nell’ordinario. E proprio per questo, nella sua regia misurata, nei dialoghi rarefatti, nei paesaggi apparentemente pacifici, c’è tutta la violenza emotiva di una realtà che non si può semplificare. “Sotto le foglie”, con la sua ambientazione ambigua e la sua morale in bilico, ci lascia con la certezza che la verità dell’uomo non è mai chiara, e che spesso, come un albero con le sue radici, ciò che lo muove si trova nascosto, sotto la superficie.


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