Con Nicola Nocella, Ileana D’Ambra, Gianni D’Addario.
Con “Il maledetto”, Giulio Base costruisce una tragedia contemporanea di forte intensità, traslando l’archetipo shakespeariano del “Macbeth” nel cuore di una Puglia segnata dalla criminalità organizzata e da un inevitabile senso di rovina. L’atmosfera è sospesa, malinconica, radicata in un presente che sembra appartenere a un passato senza tempo. Nelle campagne assolate e nelle abitazioni isolate del Sud, si consuma il terribile destino di Michele Anacondia, uomo remissivo e turbato, stancamente legato ad un clan mafioso, schiacciato da una società che non ammette esitazioni e da una spinta interiore che prende corpo dal volto della moglie. È proprio lei, Leda, a guidare la sua ascesa criminale. Ambiziosa, lucida e determinata, la moglie di Michele incarna il desiderio di riscatto in un mondo dove il potere è accessibile solo a chi è disposto a pagarlo a caro prezzo. Non è una semplice manipolatrice, ma il motore stesso della tragedia, colei che agisce con consapevolezza laddove il marito esita, fino a trasformarlo in una figura spietata, annientando progressivamente ciò che resta della sua umanità, e rendendolo una sorta di “Palla di lardo” di kubrickiana memoria, vista anche la sua notevole mole, in versione gangster. Michele, ex militare ritiratosi in un’esistenza insignificante e grigia, è un uomo segnato da un profondo senso di esclusione.
La tragica perdita del figlio neonato per mano della cosca rivale e la disumana pressione del contesto mafioso lo obbligano ad una metamorfosi radicale, ma mai interiorizzata. La sua è una trasformazione imposta, non voluta, e per questo tragica. Nicola Nocella restituisce tutto questo con una recitazione fatta di sguardi spezzati e silenzi eloquenti, in cui si percepisce il conflitto tra ciò che l’uomo è e ciò che deve fingere di essere. Il regista richiama apertamente la lezione viscontiana nel disegnare la famiglia come epicentro del conflitto. La casa degli Anacondia non protegge, ma espone. È lo spazio in cui l’amore si corrompe, dove il sentimento si tramuta in lotta per la supremazia. Persino il fratello di Leda, possibile concorrente di Michele nella sua ascesa al potere, viene eliminato da questi, dentro una tensione familiare non detta che rimanda a quella legata all’eliminazione di Fredo Corleone ne “Il padrino” di Francis Ford Coppola. Questa decadenza, oltre che narrativa, si riflette anche nella messa in scena. Gli ambienti si restringono, le luci si affievoliscono, i volti si spengono lentamente, fino a lasciare spazio solo al vuoto. L’ambientazione, pur contemporanea, appare sospesa in un tempo indefinito. I luoghi sterrati, le masserie isolate, i locali spogli, la grande e metaforica residenza storica in cui si trasferisce la diabolica coppia, sembrano scollegati dal presente, come se il tempo si fosse fermato in una dimensione che rende ogni gesto inevitabile e ogni scelta già scritta.
Il dialetto pugliese, usato con misura e senza compiacimenti folcloristici, contribuisce a dimensionare la narrazione in una realtà viva, lontana da qualsiasi astrazione estetica. Dopo “Il banchiere anarchico” (2018), Base torna a riflettere sul tema del potere, ma qui la riflessione filosofica lascia spazio alla realtà più cruda. Il potere non è più concetto, ma necessità brutale, forza impersonale che divora chi tenta di dominarla. Michele perde sé stesso nel tentativo di sopravvivere, Leda si consuma nella corsa verso un traguardo illusorio, e attorno a loro si dipana una spirale di solitudine e sopraffazione. In questo mondo, nessuno mantiene intatta la propria identità. E nessuno riesce a sfuggire al giudizio del fuoco finale. Anche la forma è coerente con il contenuto. La fotografia di Giuseppe Riccobene disegna contrasti marcati e ombre simboliche, enfatizzando l’angoscia e l’oscurità interiore dei protagonisti. L’uso del suono, essenziale e tagliente, accompagna lo spettatore in una progressiva immersione nell’angoscia, amplificando il senso di minaccia costante. La tensione narrativa cresce, così, senza ricorrere a forzature. E’ nei silenzi, nei gesti minimi, che si misura l’inesorabilità del dramma. I personaggi non acquisiscono mai una dimensione mitica, restano sempre profondamente umani. Michele e Leda sono figure vive, plasmate da un contesto che impone loro scelte estreme. Le loro azioni non cercano giustificazioni, ma si spiegano nella logica feroce di un ambiente che non conosce alternative. La tragedia che li travolge è prima di tutto sociale, non c’è spazio per il dissenso, non c’è salvezza per chi rifiuta il ruolo assegnato. In questo senso, il riferimento forte di Base sembra essere il capolavoro di Sam Peckinpah, “Voglio la testa di Garcia” (1974), dove il fare del protagonista è insieme “storico” e personale, in un intreccio, tra questi due piani, impossibile da sciogliere. “Il Maledetto” è più di un adattamento contemporaneo del “Macbeth”, è una riscrittura piena, consapevole, radicata in un’Italia dimenticata e crudele, dove i temi shakespeariani dell’ambizione e della caduta risuonano altrettanto tragicamente. Giulio Base dirige con rigore e lucidità un film che sa essere insieme concreto e universale, capace di raccontare la fragilità umana senza mezze misure, scavando nel profondo delle sue contraddizioni. Un’opera dura, coerente, necessaria.