Dopo il David di Donatello alla carriera. Il ritratto di Milena Vukotic e l’intervista inedita

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Milena Vukotic, già laureata con il Premio Duse, dall’ambito riconoscimento popolare assegnato dalla rivista Ciak e dal prestigioso Premio Flaiano, è stata appena incoronata regina dello spettacolo con l’assegnazione del David di Donatello alla carriera.

Attrice di Fellini, Buñuel, Tarkovskij, cioè dell’olimpo artistico del cinema, Milena viene volentieri ricordata dal grande pubblico come la moglie “Pina” di Paolo Villaggio/Fantozzi, o la nonna Enrica al fianco di Lino Banfi nella serie televisiva Un medico in famiglia. Un’artista decisamente trasversale adorata sullo stesso piano dalla massa e dagli intellettuali.

“Va bene così – sussurra lei sorridendo con tenera ironia – noi attori apparteniamo al pubblico, è lui che decide come amarci.”

In passato con Milena Vukotic abbiamo portato in scena L’amico magico, una ‘mise en espace’ in cui abbiamo immaginato che le voci di due giganti dell’arte cinematografica come Federico Fellini e Nino Rota, potessero dialogare efficacemente anche sul palcoscenico: da un lato la musica del sommo compositore milanese eseguita magistralmente al pianoforte da Angela Annese; dall’altro la voce narrante di Federico, rievocata con impareggiabile arguzia, tenerezza ed empatia da Milena Vukotic, un’interprete capace come poche di riprodurre lo spirito stesso del celebre regista.

In ogni città i teatri si affollavano di un pubblico eterogeneo: moltissimi giovani, appassionati sia di musica che di cinema, e di regola un’esuberante, festosa, attenta partecipazione femminile, come se le donne ritrovassero in Milena la sintesi di una grazia, un’affabilità, una raffinatezza che si sta progressivamente smarrendo. Il suo camerino si riempiva di ammiratori, l’atrio del teatro, l’uscita degli artisti, erano affettuosamente presidiati dalla ressa dei fan in attesa di poter parlare con lei, ricevere un autografo, un consiglio, un incoraggiamento.

“Pensi di meritare tutto questo amore?” Le domando.

“Non so, però mi fa piacere. Il nostro è un lavoro di seduzione che ha bisogno di essere riconosciuto. Certo, al fondo esiste un equivoco, scambiano me per i personaggi con cui si sono divertiti o commossi, mi attribuiscono valori che forse non possiedo. Ma anche, chi lo sa, magari percepiscono con più precisione di quanto io possa intuire, il rapporto di stretta complicità che esiste fra un attore e il suo pubblico, quell’invisibile intesa, quel patto misterioso che ha determinato a monte la tua vocazione.”

Per Milena la ‘chiamata’ era giunta improvvisa e ineluttabile. Figlia di un commediografo di origine montenegrina e di una pianista italiana, viveva in Francia, studiava danza classica, voleva diventare ballerina e si era già affermata nel Grand Ballet du Marquis De Cuevas e nella formazione di Roland Petit. Ma una sera andando al cinema le capitò di vedere La Strada di Fellini. Ne rimase ipnotizzata, frastornata, tanto da far fatica a rientrare nella realtà. Il film continuava a espandersi dentro di lei, a occuparle l’anima. Tornò a vederlo, ancora e ancora: aveva trovato la strada che stava confusamente cercando nel magma di un talento naturale impaziente di venire alla luce. Pensò, si immaginò, si ripropose, di riuscire a incontrare e conoscere l’autore di quel capolavoro misterioso.

E il miracolo avvenne davvero quando lei si trasferì a Roma senza più tergiversare. Rocambolescamente aveva partecipato all’episodio di Boccaccio 70, Le tentazioni del dottor Antonio (1962) ed era riuscita a entrare nel cast di Giulietta degli Spiriti, nel ruolo di una delle due cameriere di Giulietta. Una parte di poche pose a cui Milena, come succede per i veri interpreti, seppe donare dimensione e intensità inconfondibili. Fellini la richiamò ancora per un cameo memorabile in Toby Dammit (Tre passi nel delirio1967), e da quello prese definitivamente il volo. Come meglio non sarebbe potuto avvenire, dal momento che a convocarla presso di sé fu il mitico Luis Buñuel, in tre film successivi che rimangono indimenticabili nella storia del cinema: Il fascino discreto della borghesia 1973, Il fantasma della libertà 1974 e Quell’oscuro oggetto del desiderio, 1977.

Buñuel era un autore che Fellini apprezzava incondizionatamente, una specie di padre nobile a cui riservava un posto speciale nell’arte cinematografica, accanto ad Akira Kurosawa e a Stanley Kubrick.

“Appena fui certa che Buñuel mi aveva scelta per la parte, andai a trovare Fellini a Cinecittà, per informarlo. Fu felicissimo, mi elogiò esaltando l’esperienza che mi attendeva, anticipandomi col suo linguaggio fiorito lo scenario di delizie che mi sarebbe derivato da una tale opportunità. Mi abbracciò, mi baciò augurandomi buon viaggio e, proprio nel momento di accomiatarci, mi domandò: “Ma quanti anni ha, adesso, Buñuel?”

Partii felice con la sua benedizione e un biglietto scritto di suo pugno come presentazione per il collega. Quando finalmente arrivai in Spagna e mi presentai sul set del film (Il fascino discreto della borghesia, 1973 n.d.r.) che era già in lavorazione, fui subito introdotta al grande regista. Don Luis, come lo chiamavano tutti con deferenza, fu molto cordiale, mi diede il benvenuto, prese il biglietto di Fellini, lo lesse, e si trattenne gentilmente a parlarmi. Volle sottolineare quanto fossi stata fortunata ad aver esordito con un autore di quel talento, e mi elencò i film che aveva visto di lui e che amava, considerando Federico quasi un fratello minore. E al momento del saluto, sul punto di allontanarsi, volle farmi ancora una domanda: “Ma quanti ha, adesso, Fellini?”

E pensare che arrivando in Italia, in cerca di lavoro, Milena Vukotic si era presentata con una lettera di Marie Claire Sinko a Renato Castellani. Il quale aveva decretato: “Guardi, per fare l’attrice bisogna essere belle, oppure possedere una personalità prorompente come Anna Magnani, come Gina Lollobrigida. Siccome lei non corrisponde né all’una né all’altra categoria, le consiglio di cambiare mestiere.”

Milena ride di cuore al ricordo e precisa:

“Sì, però, in seguito fu lui stesso a chiamarmi per propormi il ruolo della Contessa Maffei nella Vita di Giuseppe Verdi; e non faceva che lodarmi, mi paragonava a Rina Morelli!”

La mitica Morelli, della premiata compagnia Morelli-Stoppa, che aveva accolto la giovane Milena assegnandole una parte in What a lovely war! dove lei poteva recitare e anche cantare.

Rina Morelli, eterna amante di Paolo Stoppa, il quale però non le permetteva di vivere con lui, nel principesco appartamento che occupava al piano attico di uno stabile di fronte all’Ara Coeli. La Morelli – ricorda Milena – abitava in un paio di stanzette al primo piano del teatro Eliseo, un letto a una sola piazza, e pochi mobili essenziali, oltre ai suoi bauli di scena che la seguivano in ogni tournée. Sul cassettone campeggiava la fotografia di Luchino Visconti. In quel quartierino conduceva la propria esistenza discreta, sobria, quasi monastica, posseduta dalla vocazione teatrale e null’altro.

“Era il prototipo dell’attrice che viaggia tutto il tempo, e non conosce altra esistenza oltre quella del palcoscenico.” Sottolinea la Vukotic con un sospiro d’affetto profondo.

La Morelli l’aveva un po’ adottata. Le aveva fatto cambiare pettinatura quando lei, com’era uso delle ballerine, portava i capelli lunghissimi tirati sulla nuca e legati a coda: “Non sono giusti per un’attrice giovane”, le aveva spiegato. Una volta, a Milano, l’aveva condotta con sé in una lussuosa profumeria accanto all’albergo facendole spendere ben novemila lire, quasi l’intera paga, in cosmetici, incluso il fondo tinta di Germaine Monteil da lei stessa adoperato.

“Hai imparato molto da lei?” Provo a indagare.

“Ma sai – mi risponde – era un talento unico, irripetibile. Mi sono piuttosto attenuta a un’esortazione che la Morelli ripeteva spesso: “Bisogna andare a teatro per sapere ciò che non bisogna fare.”

“Sei contenta della tua carriera?”

“Ho ottenuto ciò che volevo, cioè lavorare per tutta la vita nel mondo dello spettacolo. Desideravo diventare attrice, danzare, e alla fine tutto è tornato, mi è stata donata un’esistenza che va molto oltre la dimensione del quotidiano.”

“Se fossi costretta a scegliere tra cinema e teatro?”

“Sono molto ‘volage’ e alla fine mi innamoro di quello che faccio. Ma messa alle strette sceglierei il cinema. Debbo essere sincera, non partecipo alla mistica di tanti attori seri che hanno bisogno di percepire il respiro dello spettatore per accendere la propria fiamma. In un set cinematografico, tra i cavi gettati a terra, la confusione intorno, e le persone che fumano nella semioscurità, mi trovo benissimo. È indescrivibile la magia che si instaura in uno studio cinematografico, quando c’è al centro un “Faro”, è un’emozione molto forte; non troppo diversa dal momento in cui oltrepassi le quinte per entrare in palcoscenico, sfidando la platea che hai di fronte.”

Il suo è un sorridente ammiccamento, usa di proposito quel termine inventato dalle maestranze di Cinecittà per annunciare Fellini: “Arriva er Faro”. Di Federico è stata amica devota: a lui raccontava per primo ciò che di bello le accadeva nella professione. A lui ha rivolto parole di gratitudine stringendo in mano la statuetta del David di Donatello.

“Che cosa vuol dire ricevere un premio alla carriera?”

“Una testimonianza di aver portato avanti tanto lavoro e il riconoscimento di ciò che si è fatto. E anche la presa di coscienza che si deve continuare sempre a sperare di essere scoperti”

“È il piacere più grande?”

“Certo. Visto che facciamo un mestiere che ha bisogno di costante approvazione.”

“Si è sempre in cerca di qualcosa che non arriva mai?

“In certi rari momenti, quando c’è qualcuno che ti coinvolge completamente, hai l’impressione di avercela fatta. In quei momenti si dimenticano le difficoltà, i dolori, i fallimenti. Sono stati d’animo inesprimibili, quasi da sogno. Un premio come questo David di Donatello ti enuncia, ti rassicura, che hai raggiunto qualche cosa. E soprattutto puoi sempre immaginare che possa succedere l’impossibile. Il nostro è un esercizio dove non ci sono limiti di età, possiamo andare avanti finché il fisico ci sostiene, e continuare a fantasticare con delle maschere, con dei costumi, che ci trasformano in personaggi a cui magari non assomigliamo affatto.”

“Prevale nella tua natura l’inclinazione intellettuale, o la comédien espressa con Villaggio e con Banfi?”

“Dai set di Fellini a questi ruoli comici c’è sempre di mezzo il clown. Io considero una fortuna e un gioco felicissimo inventarmi la vita nei personaggi. Mi sembra un lavoro meraviglioso.”

“Ci sono ruoli che non hai amato?”

“Ho cercato di seguire il suggerimento di Fellini. Una volta fui chiamata da Marco Vicario per un film intitolato L’Erotomane. Chiesi a Federico di consigliarmi, e lui mi disse: “Nel limite della decenza, si deve fare tutto.” Accettai la parte e fu un film per niente volgare, dove interpretai un personaggio divertente di una segretaria sognatrice. Che poi il pubblico finisca per identificarti con un solo ruolo, beh, fa parte dei rischi del mestiere.”

“Si interpretano meglio i personaggi affini o quelli più distanti?”

“I personaggi più simpatici sono quelli più lontani, mi consentono di andare oltre me stessa, oltre il naturalismo, oltre la mia realtà.”

“Il personaggio più amato?”

“Sono stata molto attratta da Alice, realizzata per la televisione. Era la prima volta che si usava il croma key che permette di ottenere divertenti effetti speciali; c’erano le scene di Lele Luzzati, il testo era di Guido Davico Bonino, e come ho detto avevo dei fantastici compagni di scena, da Giustino Durano che faceva il Cappellaio Matto, a Franca Valeri la Regina di Picche) ad Ave Ninchi la Regina di Cuori.”

“Lo stupore ti appartiene?”

“Direi proprio di sì.”

“La fortuna quanto conta?”

“Conta sempre, ma credo anche che ce la costruiamo noi pezzo per pezzo. Bisogna saperla scorgere.”


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