Rai. Settant’anni e si vedono

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Gli anniversari spesso scadono nella retorica e nell’elegia acritica.

Figuriamoci la Rai, che rappresenta il romanzo popolare per eccellenza nel sistema dei media. Cattivissima secondo diversi critici, lottizzata e piegata ai poteri dei forti, munita di una tassa mal sopportata come il canone, l’azienda pubblica radiotelevisiva rappresenta -comunque- l’oggetto del desiderio di chiunque varchi qualche soglia istituzionale. Andare in televisione conferisce ruolo e prestigio, al di là di tutto. La radio, a torto, è meno appetita, perché il narcisismo vuole che ci si specchi nelle immagini.

Ma non solo coloro che suppongono di contare hanno simile rapporto di odio-amore (odio poco, in verità). La Rai, entrata in scena con soli 90 abbonamenti il 3 gennaio del 1954 (arrivati a quasi 26 milioni), ha contribuito in modo decisivo a costruire la cultura di massa italiana.

In un paese in cui le élite intellettuali erano piuttosto legate ai libri e alla carta stampata, l’irruzione delle frequenze hertziane fece diventare il video un elettrodomestico della vita quotidiana, con i suoi usi e con le sue gratificazioni di sovente alienanti.

La Rai ha svolto (e svolge, almeno in parte) una funzione assai rilevante nella delineazione dell’industria di settore, anche in virtù dell’ottima tradizione degli sceneggiati trasferitasi nei tempi meno lontani nelle fiction di qualità. Grazie ad una buona legge (la n.122 del 1998), i broadcaster hanno l’obbligo di produrre film e audiovisivi italiani ed europei, con positivi effetti generali.

La scelta di avere una consistente parte pubblica fu una caratteristica saliente dell’approccio europeo, avverso in origine alla linea privatistica di paesi come gli Stati Uniti. E l’Italia cercò di stare nella scia dei colossi come la BBC del Regno Unito o dei canali francesi e tedeschi.

Senza una vera rottura di continuità nei gruppi dirigenti e negli apparati con l’EIAR (ente italiano per le audizioni radiofoniche) dell’età fascista, il cammino si intrecciò subito con il mondo democristiano, il più lesto con Amintore Fanfani ad intuire il peso di un mezzo a lungo negletto e sottovalutato dall’impostazione dei comunisti italiani, tenuti fuori dalle stanze dei bottoni a causa del fattore K, ma distaccati e incredibilmente distanti dall’innovazione tecnologica. In qualsiasi libro o saggio sull’argomento si legge l’incredibile avversione del Pci verso la diffusione a colori. I socialisti, insieme a repubblicani e liberali, si infilarono nella porta della spartizione dominata dalla Dc. Non per caso, oltre all’antesignano Filiberto Guala, padre-padrone dell’avvio delle trasmissioni, il nome che simboleggia quel potere catto-democristiano rimane quello di Ettore Bernabei. Tuttavia, sotto il segno dominante avevano un certo grado di libertà personaggi come Mario Soldati, Furio Colombo, Sergio Zavoli, Enzo Biagi, Antonello Falqui, seguiti da Andrea Barbato, Massimo Fichera, Emanuele Milano, Alberto La Volpe, fino ad Angelo Guglielmi: per citare in difetto un pantheon davvero notevole. Ciò che resta di buono deriva dalla stagione autoriale e capace di sperimentare. E, prima ancora, la strada fu aperta da Sergio Pugliese e Vittorio Veltroni, ideatori della sezione dedicata ai programmi culturali e del telegiornale. E poi, il maestro Manzi o il mitico Mike Bongiorno raffigurato a mo’ di stilema della piccola borghesia italiana dal noto scritto di Umberto Eco. E Raffaella Carrà. L’elenco è lungo.

Nel 1975, insieme ad altre fondamentali riforme, la legge n.103 scosse dalle fondamenta la Rai, attribuendone vigilanza e indirizzo al Parlamento e sottraendola all’area di influenza del governo. Quella riforma, mai pienamente in vigore, fu parzialmente annacquata dalla liberalizzazione coeva dell’etere, dopo due storiche sentenze della Corte costituzionale del 1974 e del 1976. La mancata regolamentazione del sistema portò all’entrata in scena della Fininvest di Silvio Berlusconi: il duopolio attraversò gli anni successivi, con una competizione complice che ridusse la portata innovativa di un campo che nel frattempo entrava nell’era digitale e nei protocolli DVB-T1 e DVB-T2 con la scoperta dell’alta e altissima definizione.

Il resto è cronaca recente.  Fu il governo presieduto da Matteo Renzi a riportare il servizio pubblico nella sfera governativa con la legge n.220 del dicembre 2015.

La destra ora a Palazzo Chigi, vogliosa di sedersi nelle stanze agognate dal buco della serratura, ha interpretato alla lettera il dispositivo voluto dall’attuale senatore di Italia Viva: non lottizzazione, bensì pura e semplice occupazione terribile e dedita ad un presunto cambio della narrazione precedente. Così dixit il ministro Sangiuliano, benché i risultati di audience siano piuttosto scarsi proprio nei programmi di nuovo cono.

L’informazione, che pure ha visto destreggiarsi redazioni dirette con maestria e capacità da figure che tanto rimpiangiamo (da Roberto Morrione a Sandro Curzi, insieme ad un vasto corteo), è scesa sotto il livello di guardia. TeleMeloni, si dice. Già, ma non solo. Prevale tragicamente una sorta di pensiero unico omologante. Le eccezioni non mancano, ma con costi altissimi di polemiche e di querele: da Presa Diretta a Report.
La Rai è stata battuta nell’anno passato da Mediaset negli ascolti, secondo la vecchia regola del mercato che privilegia l’originale rispetto alla copia. Ogni tanto un raggio di sole, però, illumina le tenebre: è il caso di Io, noi e Gaber, visto a Capodanno sulla terza rete. La Rai sembrava la Rai e un milione e seicentoquattromila persone che hanno rivisto Gaber e Mina non sono poche.


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