Giorgia Meloni e il dramma di una generazione

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Tutto si può rimproverare a Giorgia Meloni tranne di non essere cresciuta a pane e politica. Nonostante questo, la conferenza stampa di fine anno, eccezionalmente posticipata all’inizio del nuovo anno per motivi di salute della Presidente del Consiglio, spiega alla perfezione i tratti peculiari della destra di governo. E un po’, ci spiace dirlo, della politica contemporanea in generale. Di fronte all’FNSI che diserta l’appuntamento, lasciando per la prima volta una clamorosa sedia vuota, di fronte all’allarme sollevato da Giuliano Amato, non proprio un sovversivo, in merito a una possibile deriva polacca o ungherese dell’Italia per quanto concerne la Corte costituzionale e dopo l’incresciosa vicenda di Capodanno che ha coinvolto un deputato del suo stesso partito, l’inquilina di Palazzo Chigi ha, infatti, pensato bene di glissare sulle domande scomode, accuse di Amato comprese, e di lasciarsi andare a un vittimismo di maniera, lanciandosi oltretutto in una filippica irridente ai danni delle opposizioni, verso cui una personalità del suo calibro dovrebbe avere, e manifestare, invece, il massimo rispetto.
Non entriamo nel merito delle singole questioni, anche perché c’è davvero poco da dire. Ci soffermiamo piuttosto sui modi, la postura e le caratteristiche della dialettica meloniana, purtroppo simile a quella di alcuni esponenti di primo piano della maggioranza e dell’opposizione suoi coetanei, che trasuda un implicito disprezzo per la cosa pubblica, per la sacralità istituzionale e per i luoghi in cui la vita pubblica si svolge. Non hanno il senso della comunità, dello stare insieme, del vivere civile. Non riescono a fare a meno di prendere in giro chi dissente. Non si risparmiano mai lo sberleffo a danno dei più piccoli, dei più fragili, dei più indifesi: che si tratti di avversari politici con percentuali minime o dei poveri cristi che percepivano il Reddito di cittadinanza non fa alcuna differenza.
È triste doverlo ammettere, ma questa è una concezione proprietaria della politica, figlia di quattro decenni di liberismo arrembante e perfettamente in linea con il nuovo statuto del mondo, in base al quale chi è nato indietro non deve avere alcuna possibilità di fare strada. Non è un problema solo italiano: è un dramma collettivo, l’ovvia conseguenza di una globalizzazione dissennata e fallimentare che ha condotto l’Occidente nel baratro e decenni di conquiste sociali e civili a essere progressivamente accantonate, se non addirittura smantellate. Anche l’idea di mettere il bavaglio all’informazione, a pensarci bene, è frutto di questa deriva: un potere senza regole, senza controlli, senza punti di riferimento; un potere che non deve chiedere il permesso a nessuno e pretende di prendersi tutta la scena, salvo poi fallire miseramente. Non c’entra solo il governo Meloni: il degrado è cominciato molti anni prima che lei assumesse il ruolo che attualmente ricopre e persino prima che mettesse piede in Parlamento. È la nostra sconfitta, la nostra tragedia senza fine e, forse, senza via d’uscita.
Del resto, se siamo ridotti così, è anche perché una generazione è stata messa a tacere e le successive, prive di esempi, partiti e luoghi d’incontro, confronto e azione politica, non sono riuscite a sbocciare. E coloro che oggi sono al potere, non solo in Italia, sono gli esponenti di quella generazione che, per dirla con una mia cara amica, “il 20 luglio 2001 stavano a prendere il sole a Santorini”. La data scelta, come potete ben immaginare, non è casuale.

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