L’enigma della prevenzione del femminicidio

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Ha ragione Marco Travaglio: di fronte alla morte è meglio tacere se non si ha niente da dire: di parole vuote ne vengono dette in abbondanza e tutte girano attorno ad una parola magica: “prevenzione”. Quando non si sa che cosa pensare, dire o fare, si fa appello alla “prevenzione”, che diventa un tormentone nelle parole del Presidente Meloni (“C’è molto lavoro da fare e intendiamo portarlo avanti a 360 gradi, incentrando il nostro impegno su tre pilastri d’azione: prevenzione, protezione e certezza della pena”), del vice-Presidente Matteo Salvini (che evoca castrazioni chimiche o, in alternativa, incolpa la famiglia, che “deve fare la famiglia”, in linea con la diceria che la colpa dei morti di Cutro è dei genitori che hanno permesso che i figli si imbarcassero sui barconi), dell’altro vice-Presidente Antonio Tajani e del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (che improvvisamente scoprono l’esistenza di un Parlamento, in cui discutere “di questa mattanza”, come a dire che il Parlamento serve solo a coalizzarsi contro il nemico di turno, sia esso il terrorismo o il Covid o qualche altro “imprevisto”). Più arditamente lo stesso Piantedosi evoca il “piano culturale ed educativo” e la Ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella, accusa le madri che non sanno educare i figli maschi. Sul banco degli imputati, in alternativa, c’è la scuola, che diventa (per il Ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, – Ministro di un Ministero che istruisce, ma non educa – ma anche per la Ministra per l’Università, Anna Maria Bernini) il luogo d’intervento attraverso qualche ora di educazione civica o sessuale, grazie anche alla collaborazione con cantanti e influencer: il fido Morgan, esperto nel consumo di cocaina e affini, potrà dare lezioni, oltre a quelle che già dà attraverso i media!

Ma che cos’è la “prevenzione”? All’ex-staffetta partigiana Tina Anselmi, che scrisse la legge di Riforma Sanitaria 833, promulgata nel 1979, il significato di prevenzione era ben chiaro. Questa chiarezza è interpretata nei testi medici in modo riduttivo, ma pragmatico. Nei testi canonici vengono, infatti, distinti tre livelli di prevenzione: la prevenzione primaria, secondaria e terziaria. Nella “prevenzione primaria” si cerca di prevenire lo sviluppo della patologia (ad esempio attraverso le vaccinazioni). Nella “prevenzione secondaria” la malattia è riconosciuta e curata precocemente, spesso prima della comparsa dei sintomi, riducendo pertanto al minimo le conseguenze gravi (ad esempio, attraverso programmi di screening, il tracciamento dei contatti in certe malattie infettive, il trattamento dei “diffusori” di malattia. Nella “prevenzione terziaria”, una malattia pregressa, di solito cronica, viene trattata allo scopo di prevenire complicanze o ulteriori danni che potrebbe causare (ad esempio, i protocolli da attuare nel caso delle malattie croniche, la riabilitazione, la prevenzione delle piaghe da decubito negli individui allettati).

Quando, però, si allarga il contesto d’indagine e ci si accorge che quasi tutte le malattie hanno una valenza sociale, la malattia può diventare un insegnamento per chi rischia di contrarre la stessa malattia. La scrittura della legge 833 da parte di Tina Anselmi si basava, infatti, anche sull’esperienza della gestione delle malattie sviluppatesi nel polo industriale di Porto Marghera: scoprire la causa, ad esempio, di un tumore alla vescica nell’uso dell’anilina nel processo di produzione dell’industria attivava la cura e la prevenzione terziaria nel malato, la prevenzione secondaria nei compagni esposti al rischio e la prevenzione primaria nella bonifica del processo di produzione. Riabilitazione, cura e prevenzione facevano dunque parte di un processo circolare, che riportava al centro dell’attenzione, attraverso la consapevolezza della malattia, la salute come bene primario. Tina Anselmi aveva individuato nel “distretto sanitario” il luogo della partecipazione, in cui potesse esprimersi la soggettività dei cittadini e, quindi, la prevenzione primaria. Le cose non sono andate così: il “distretto sanitario”, come ideato da Tina Anselmi, è stato, quasi subito, svilito dal tecnicismo, è diventato il luogo dove erogare la prestazione in prossimità del paziente, col rischio di indurre assistenzialismo, non è stato più pensato come luogo di autoriflessione. L’adulterazione della scrittura di Tina Anselmi è stato uno di quei fenomeni di erosione istituzionale, che poi ha coinvolto partiti e sindacati aprendo la strada al sovranismo e all’uomo unico al comando.

Ma, forse, l’ascolto più attento delle parole di Elena Cecchettin (“lui – l’assassino della sorella – mostro non è, mostro è colui che esce dai canoni normali della nostra società, lui è un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro”) può aiutare a restituire il senso alla “prevenzione primaria”. Le inquietanti parole di Elena hanno ovviamente creato lo sgomento in chi partecipa attivamente alla società patriarcale, ad esempio andando in dibattiti televisivi litigiosi o in giurie in cui si vota il ballo di qualche “noto” personaggio: hanno detto che il “mostro” è dentro di noi e che non basta delegare alla scuola o alla famiglia il ruolo di bonificatori. Il problema è “politico”, nel senso dell’inesistenza di una sana politica: in Parlamento (quando lo si lascia “parlare”) e nei dibattiti televisivi si assiste ancora allo stereotipo, secondo il quale la “destra” è l’alfiere del “rispetto” (delle leggi) e che la “sinistra” è l’alfiere del “rispetto” (delle libertà individuali).

Ma la prevenzione primaria non può ridursi alla modifica dello “stile di vita”: è, anzi tutto, favorire il passaggio da una società patriarcale, basata sull’abuso narcisistico e sull’abuso materiale, verso una società egualitaria del rispetto per la vita, per il diritto ad esserci, ad avere il minimo essenziale per l’esistere ecologico di tutti gli Esseri. E questo viene prima del rispetto per le leggi o del rispetto per qualche libertà individuale! È un vecchio problema fin dai tempi dell’Antigone di Sofocle e sembrano ricordarcelo la mite Tina Anselmi ed Elena Cecchettin. Ma quella dell’”oplite” Elena (come veniva chiamata dalla sorella Giulia) è rivoluzione, e la rivoluzione non si addice né al gregge delle vittime della società patriarcale, né a chi è stato “democraticamente” eletto, né a chi si guadagna da “vivere” attraverso qualche comparsata televisiva. Più “opliti” e meno “presidenti”, insomma.

psichiatra, già primario del reparto di psichiatria all’Ospedale dell’Elba


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