La sentenza contro Roberto Saviano, tutt’altro che simbolica, è la goccia che fa traboccare il vaso

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Pensavamo che con l’editto bulgaro di Berlusconi di aver toccato il fondo invece era solo l’inizio dell’assalto alla libertà d’informazione, al diritto dei cittadini di essere informati e al dovere dei giornalisti di informare come è sancito nella Costituzione. La sentenza contro Roberto Saviano, tutt’altro che simbolica, è la goccia che fa traboccare il vaso, l’ennesimo fatto intimidatorio contro chi racconta esattamente ciò che sta accadendo nella nostra società. Il potere esecutivo che vuole sopprimere una alla volta le voci contrarie, quelle che rappresentano la libertà di pensiero. Aver detto “bastardi” durante una trasmissione televisiva, dopo la messa in onda del racconto di una madre che aveva perso il figlio annegato in mare, viene condannato peraltro con una grande contradizione quello di riconoscere il valore sociale delle parole di Saviano, ma sanzionato il diritto di critica.  Mentre a chi va in televisione a raccontare menzogne: “l’Italia sta subendo l’invasione di migranti. Siamo a rischio di sostituzione etnica”, impedendo con leggi che hanno il sapore  dell’incostituzionalità alle navi delle ong di salvare vite umane, non accade nulla perché protetti dall’immunità che il ruolo parlamentare garantisce.

Basta vedere ciò che sta accadendo in Rai, il trionfo del pensiero unico nei telegiornali, nuove trasmissioni, cambio di conduttori, con conseguente tracollo degli ascolti che nel medio termine significherà perdita di pubblicità a beneficio della concorrenza. Ci sarà chi avrà il coraggio di portare i responsabili, voluti dal Governo di destra destra, di fronte ad un tribunale amministrativo per danno erariale? Non credo. Basti pensare ciò che è accaduto sempre a Saviano con la cancellazione della seconda edizione della sua trasmissione “Insider: faccia a faccia con il crimine “, che aveva avuto ottimi ascolti, quattro puntate già registrate buttate nell’immondizia.

I programmi che garantiscono gli ascolti sono ancora quelli che erano in onda precedentemente all’arrivo dei “nuovi comandanti”: Chi l’ha visto?” di Federica Sciarelli; “Il Cavallo e la Torre” di Marco Damilano che nella Rai di destra destra è un fiore all’occhiello rappresentando ciò che dovrebbe fare il servizio pubblico, soprattutto se messo a confronto con “Cinque minuti” di Bruno Vespa, esempio di trasmissione di regime; “Report” di Sigfrido Ranucci che nella prima puntata della ventiseiesima edizione ha superato l’11% di share. Oggi Ranucci e la sua squadra sono solidi, hanno un pubblico che li segue a prescindere dalla collocazione in palinsesto, perché “Report” è l’esempio di vero giornalismo d’inchiesta. Complimenti a Ranucci e a Giorgio Mottola per “Dynasty La Russa”. Nel guardarlo ho avuto la sensazione di rivivere quell’atmosfera costruita perfettamente dal racconto di Arrigo Petacco e dalla regia di Pasquale Squittieri nel film “Il Prefetto di ferro” con Giuliano Gemma nel ruolo di Cesare Mori inviato in Sicilia per debellare la mafia. Non voglio essere male interpretato, non faccio paragoni con la storia dei La Russa, ci mancherebbe, ma l’atmosfera di Paternò, nel racconto di Mottola è un po’ quella presente nel film dove il potere di poche famiglie condizionava la vita di tutte le altre. Il racconto di una famiglia in perfetta continuità negli anni con il capostipite Antonino che nel ventennio fu segretario del Partito fascista poi senatore del Movimento sociale, per poi passare il testimone al figlio Ignazio. Ci sono alcune cose che lasciano stupiti, e ci debbono far riflettere sulla libertà di informazione: la minaccia di causa preventiva che il presidente del Senato La Russa ha fatto nei confronti di “Report” addirittura prima della messa in onda; non aver voluto rispondere alle domande poste dal giornalista, ma di averle fatte leggere al portavoce e aver minacciato Ranucci se non avesse messo in onda parola per parola avrebbe fatto causa; l’intervista al colonello dei carabinieri in pensione Michele Riccio che ha raccontato che il capomafia Luigi Ilardo, prima informatore poi pentito, ucciso dalla mafia, gli aveva confidato che Cosa nostra avrebbe dato indicazioni nel 1994 di votare in Sicilia Orientale Antonino e Vincenzo La Russa, rispettivamente padre e fratello del presidente del Senato.

Credo che in tutto ciò sia evidente l’assalto all’Articolo 21 della Costituzione. L’articolo che rappresenta l’essenza della democrazia. Per questo motivo, oltre ad esprimere solidarietà a Roberto Saviano, a Sigfrido Ranucci, a Giorgio Mottola e a tutti quei giornalisti minacciati, l’Associazione Articolo 21 invita tutti nel nome della Costituzione a sottoscrivere sul sito le parole di Saviano: “Dare voce a chi non ha nessuna possibilità di pronunciarsi”.


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