Attacco alla giurisdizione e il “caso del giudice di Catania”. L’intervento del Csm

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Si è scritto e si è parlato molto da alcuni giorni del provvedimento della giudice catanese che ha annullato il provvedimento di trattenimento nel Centro di Pozzallo di quattro cittadini tunisini approdati il 20 settembre a Lampedusa.

In questo sito se ne è data prontamente notizia (30 settembre: “Il decreto sui migranti “inciampa” sui primi quattro fermi. Il giudice: illegittimo”), riportando analiticamente gli aspetti salienti della motivazione (1 ottobre: “ Cosa non funziona nel decreto sui richiedenti asilo che viola norme Ue e Costituzione”).

L’interesse che spinge a tornare sull’argomento non è tanto quello di analizzare il contenuto del provvedimento o quello di correggere le macroscopiche inesattezze di alcune dichiarazioni pubbliche (ben evidenziate da Barbara Scaramucci (“Un governo eletto non è una monarchia assoluta”), in questo sito (2 ottobre).

Preme piuttosto segnalare la pericolosità di alcune affermazioni, a tratti minacciose, di esponenti politici, anche con cariche istituzionali.

Il copione non è nuovo, ma questo non ne diminuisce la gravità.

Silvio Berlusconi, riferendosi alle indagini e ai processi di “mani pulite”, nel novembre del 2001, dichiarò che “in Italia vi è stata negli anni passati una guerra civile alimentata dai magistrati italiani con la complicità del PCI, che ha infiltrato suoi uomini nella magistratura stessa. I giudici vollero rovesciare il sistema” e nel maggio 2003 disse a Le Figarò che la magistratura è “un cancro da estirpare”. Il giorno dopo che le sezioni unite della Cassazione avevano respinto la sua richiesta di spostamento di alcuni suoi processi milanesi ad altra sede per legittimo sospetto (29 gennaio 2003), diffuse un monologo registrato con il quale attaccava la cassazione e la magistratura in genere (“si giudica da sé e si autoassolve in ogni sede) chiedendo il ripristino dell’immunità parlamentare ”per il bene del Paese”. E non sono da tralasciare precedenti “eleganti” affermazioni secondo le quali “I giudici sono matti, anzi doppiamente matti. Per prima cosa perché lo sono politicamente e, secondo, sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dalla razza umana”.

C’è da dire che l’insofferenza dei governi alle limitazioni del loro potere poste dalle sentenze non è peraltro un nostro monopolio. Dalla Polonia all’Ungheria, dalla Turchia a Israele è un susseguirsi di riusciti tentativi di costruire barriere all’indipendenza dei giudici, accompagnate anche da misure repressive nei confronti di singoli magistrati. E perfino Obama, quando la Corte suprema pronunciò una sentenza che consentiva alle grandi banche di versare finanziamenti politici senza limiti si lanciò in critiche pesantissime affermando che “«E’ una sentenza che indebolisce la nostra stessa democrazia».

Ma il “così fan tutti” non può tranquillizzarci, anzi aggrava le preoccupazioni, perché indica che è in atto un tentativo di ampia portata di costruire un pensiero e una politica regressiva, di allontanamento cioè dal modello dello Stato di diritto, nato alla fine del ‘600 con l’habeas corpus e il Bill of rights, dopo il tramonto (non incruento) dello Stato assoluto che si reggeva sul principio dell’irresponsabilità dei detentori del potere.

Ora, parlare di un provvedimento giudiziario che annulla un provvedimento amministrativo, a ragione o a torto (lo stabilirà la Cassazione adita dal Ministro degli interni), applicando con ampia motivazione le norme dell’Unione e la Costituzione, come di provvedimento “scagliato contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto”, della magistratura come di “un pezzo d’Italia (che) fa tutto il possibile per favorire l’immigrazione illegale” e dei magistrati come “nemici della sicurezza della nostra nazione”  non è legittima critica,  ma attacco all’indipendenza e autonomia della magistratura, al quale fa eco la stampa filogovernativa che “sobriamente” titola “Scafisti in toga” (Libero, 1 ottobre).

Un attacco quindi al principio della separazione dei poteri sul quale si basa lo Stato di diritto. Uno “sgambetto a Montesquieu”, come efficacemente titola oggi La Repubblica.

Ora la nostra, come altre Costituzioni approvate nell’immediato dopoguerra e la fine dei regini nazifascisti che avevano gravemente offeso i diritti fondamentali delle persone, e proprio allo scopo di impedirne future violazioni da parte delle maggioranze parlamentari, è una Costituzione rigida, che modificabile solo con una particolare procedura molto severa ed entro alcuni limiti invalicabili previsti espressamente o implicitamente dalla Costituzione stessa.

Già in apertura, quindi, con l’art. 1, si ribadiscono i principi dello Stato di diritto perché anche la stessa sovranità popolare non è assoluta, in quanto deve essere esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. E l’art. 101 Cost. afferma che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, espressione nella quale il ruolo centrale è quello dell’avverbio “soltanto” che vieta altre “soggezioni” a ciò che legge non è o che è superiore alla legge stessa come le norme dell’Unione e la Costituzione.

Su questa linea l’Associazione nazionale magistrati, che non è una semplice associazione di natura sindacale ma, per statuto (art. 2, n.1) ha il compito di difendere e garantire la funzione giudiziaria in conformità con le norme costituzionali, sulla scia di analoghi documenti approvati da numerose sezioni territoriali, ha oggi diffuso un comunicato stampa con il quale afferma che “Le dichiarazioni espresse da esponenti del Governo e della maggioranza parlamentare a commento della non convalida di provvedimenti di trattenimento esprimono una preoccupante visione delle prerogative di verifica di legalità esclusivamente attribuite alla magistratura e ne minano l’indipendenza e l’autonomia. L’esercizio della giurisdizione è compito primario della magistratura ed è indifferente a qualunque logica di conflitto tra istituzioni. La critica ai provvedimenti giudiziari deve potersi muovere nel perimetro del rispetto reciproco delle istituzioni e delle rispettive prerogative, mentre la loro eventuale censura non può che passare attraverso i rimedi approntati dall’ordinamento.”

Ieri 13 membri togati del Consiglio superiore della magistratura hanno sottoscritto una richiesta di apertura di “una pratica tutela”, che non è una raccolta firma come alcuni organi di stampa hanno improvvidamente scritto, ma un atto previsto dall’art. 36, 1° comma del regolamento interno secondo cui il Csm può intervenire “a tutela di singoli magistrati o dell’ordine giudiziario nel suo complesso hanno quale presupposto l’esistenza di comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria.” Con tale richiesta si denuncia il fatto che “dichiarazioni da parte di esponenti della maggioranza parlamentare e dell’Esecutivo…per modi e contenuti si traducono in autentici attacchi all’autonomia della magistratura” ponendo “in discussione la funzione stessa della giurisdizione in uno Stato di diritto”. E poiché alcuni giornali hanno scritto di valutazioni e apprezzamenti espressi della giudice catanese su facebook e perfino delle simpatie politiche e della professione del coniuge, giustamente la proposta dei 13 togati segnala la “grave delegittimazione professionale del giudice estensore dell’ordinanza.” e la sua esposizione a “indebiti attacchi mediatici aventi ad oggetto la sua sfera personale”.

Suonano di straordinaria attualità, allora, le parole che oltre due secoli fa scriveva Immanuel Kant: “Il diritto non deve mai adeguarsi alla politica, ma è la politica che in ogni tempo deve adeguarsi al diritto.”


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