Cile: la barbarie dei militari “patrioti” nel ‘73 come nel 1907

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Le prime notizie arrivarono via radio nel pomeriggio dell’11 settembre. Era in atto il feroce bombardamento aereo del ‘Palacio de la Moneda’, sede della presidenza della repubblica cilena e di Salvador Allende. L’attacco era cominciato ore prima, ma il silenzio imposto dai golpisti e la differenza di fuso orario avevano determinato quel ritardo nelle prime comunicazioni.
Le reazioni immediate presero forma nelle università e nei luoghi di lavoro. In tutte le assemblee le valutazioni non mostravano incertezze: il colpo di stato che aveva a capo Augusto Pinochet, comandante in capo delle forze armate, generale traditore che solo tre anni prima aveva giurato fedeltà alla Repubblica nelle mani di Allende, aveva certamente alle spalle i nomi di Nixon e Kissinger, presidente e segretario di Stato Usa, come ispiratori e forse finanziatori e mandanti. Non c’era bisogno che venissero desecretati i documenti che solo decenni dopo confermarono quei sospetti. Gli studenti liceali e di tutte le scuole si riunirono in assemblea a partire dall’indomani e in molti casi gli istituti vennero occupati a sostegno della democrazia cilena. Nei giorni successivi seguirono cortei di protesta con massicce adesioni. La morte di Allende seguita, dopo solo due settimane, da quella, sospetta, di Pablo Neruda, le orrende immagini degli stadi trasformati in lager per rinchiudere oppositori politici, sindacalisti, studenti per ordine di Pinochet e degli altri generali e ufficiali che si spacciavano per ‘patrioti’ al servizio della ‘libertà’ del Paese, concorsero a far capire che quell’orrore non sarebbe finito presto.
Così per tutti noi che assistevamo impotenti a quella inaudita violenza non bastarono più le accorate partecipazioni e condivisioni ai concerti degli Inti Illimani giunti in Italia pochi giorni prima del golpe e diventati esuli. Non ci bastò più urlare a squarcia gola ‘El pueblo unido jamàs sera vencido’ o ‘Venceremos’. Occorreva altro per sottolineare la barbarie che stava sconvolgendo il Cile e diffondere la protesta.
Nei mesi conclusivi del ‘73 un folto gruppo di docenti e studenti del Conservatorio Musicale, dell’Università e degli istituti medi superiori di Cagliari decisero di mettere in campo le competenze comuni per trasformare in spettacolo un emozionante disco dei Quilapayun, altro gruppo musicale cileno esule in Francia. Al rientro da Parigi uno di quei giovani aveva portato con sé un brano inciso dal gruppo di musica popolare nel 1970, proprio l’anno dell’elezione dell’insediamento di Allende, contenente una storia che sembrava un avvertimento alla nuova democrazia del Paese sui rischi che si correvano con i militari. Titolo del disco “Santa Maria de Iquique”.
Iquique, città mineraria del nord del Paese, aveva intestato una scuola elementare a Domingo Santa Maria, che era stato un capo dello Stato. Nel 1907 quella scuola divenne il luogo di aggregazione di migliaia di lavoratori del salnitro che, proclamato uno sciopero generale, chiedevano un adeguamento delle paghe. La società internazionale proprietaria dell’impianto, che vendeva i prodotti in sterline e pagava gli operai con la poverissima moneta cilena, si oppose fermamente a qualunque richiesta e, con l’appoggio del governo di allora, chiese l’intervento dei militari. Nel frattempo la protesta aveva radunato circa diecimila operai, non solo cileni, ma anche peruviani, boliviani, argentini, che occupavano la scuola Santa Maria anche con le loro famiglie. Per fronteggiare la protesta vennero inviati ad Iquique reparti militari formati da migliaia di uomini. Il 21 dicembre gli operai respinsero l’ultimo ordine di smettere la protesta e di tornare al lavoro e scattò l’ordine del massacro. Anche quei soldati ‘patrioti’ non tennero in alcun conto la presenza di donne e bambini insieme con i protestanti e spararono. Il testo del canto, per far capire quali brutalità vennero commesse, usa un’espressione semplice e impressionante “mataron po matar”, uccisero per uccidere. Sul campo rimasero tra i 2.200 e i tremila cadaveri. La cifra esatta non fu mai comunicata. Ci furono solo i conteggi da parte di chi scampò al massacro.
Stessa storia negli stadi, nei luoghi di lavoro, nelle università ad opera dei ‘patrioti’ di Pinochet 66 anni più tardi.
Studenti del conservatorio musicale, guidati da Antonio di Malta, trasferirono su carta le note tratte dall’ascolto del disco, studenti di lingue tradussero dallo spagnolo e in parte lasciarono nella lingua originale il testo. Un insegnante-attore, di grande personalità, Giancarlo Buffa, svolse il ruolo di voce recitante. I musicisti del gruppo poterono utilizzare gli spartiti creati dopo un lavoro certosino. Tra recitazione, canto esecuzioni musicali fummo impegnati in una dozzina. Quel racconto, con la sua efficace spettacolarizzazione, riuscì a trasmettere l’idea che per certi militari, proprio come quelli di Iquique o di Pinochet l’unica parola d’ordine che riescono a rispettare senza problemi di coscienza è “matar po matar”.
Oggi, ricordare dopo mezzo secolo ‘Santa Maria dei Iquique’ è come riattualizzare il canto che in tante parti del mondo le donne in lotta contro tante forme di oppressione utilizzano riunendosi e sfidando chi cerca di fermarle. Quel canto è, non bisogna mai dimenticarlo, “Bella Ciao”.


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