La separazione delle carriere dei magistrati non riguarda una lobby ma i diritti di tutti

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Inizia a settembre con audizioni l’esame in commissione giustizia del Senato del disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere. L’interesse dell’opinione pubblica è veramente scarso, e non solo per ragioni legate al periodo agostano. Il referendum con lo stesso oggetto non ha raggiunto il quorum essendo stato votato nel giugno del 2022 dal 20,41 % del corpo elettorale.

Tuttavia il contenuto del disegno di legge, al di là dei tecnicismi, tocca aspetti fondamentali dell’assetto costituzionale: l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (nei Csm riformati i magistrati eletti sarebbero non gli attuali 2/3, ma solo la metà dei componenti) e il principio di eguaglianza davanti alla legge garantito dall’obbligatorietà dell’azione penale.

Oltre trecento magistrati in pensione, ex pubblici ministeri ed ex giudici che si sono occupati nella loro vita professionale sia di questioni civili che di processi penali, hanno sottoscritto un documento con argomentate critiche al disegno di legge. Già solo il dato formale della provenienza del documento da magistrati in pensione, con esperienze professionali molto diverse, è indice del fatto che quello che li ha mossi non è un interesse corporativo, ma esclusivamente istituzionale.

D’altra parte, non solo diversi documenti provenienti dai Consigli consultivi dei giudici e dei pubblici ministeri europei, ma anche una risoluzione del Consiglio d’Europa del 2000, avevano affrontato il tema chiedendo l’adozione di un modello istituzionale analogo a quello previsto dalla nostra Costituzione, che garantisce pienamente l’indipendenza del pubblico ministero.

L’argomento utilizzato dal disegno di legge è tanto suggestivo quanto infondato. L’appartenenza a uno stesso corpo professionale e istituzionale metterebbe in pericolo la terzietà del giudice.

Terzietà significa che il giudice deve essere indifferente rispetto agli interessi dei quali si discute nel processo. Ora, nell’attuale assetto costituzionale, il pubblico ministro non è portatore di alcun interesse proprio, se non quello al rispetto della legalità, e quindi è parte solo in senso formale del processo. L’esperienza concreta dimostra, inoltre, che non è vero che i giudici siano proni rispetto alle richieste dei pubblici ministeri, se è vero che, come risulta dalle statistiche allegate alla relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, il 50 % dei processi si conclude con assoluzione. Lascia veramente stupefatti, poi, che a fronte di un plateale caso di manifestazione di terzietà del giudice, che ha disposto in applicazione di una precisa norma di legge l’imputazione coatta dell’on. Del Mastro, imputato di rivelazione di segreto d’ufficio, la terzietà sia stata prontamente messa da parte, per correre in difesa (politica) dell’imputato e del pubblico ministero che ne aveva chiesto il proscioglimento.

D’altra parte se fosse sufficiente l’appartenenza alla stessa categoria a mettere in pericolo la terzietà del giudice bisognerebbe separare le carriere dei giudici di primo grado da quella dei giudici delle impugnazioni.

Ancora meno fondato è l’argomento che la terzietà del giudice si messa in pericolo dalla possibilità di passare da una funzione all’altra. Il fenomeno è davvero marginale. Nel periodo 1995/2000 solo il 6 % dei p.m. e il 12 % dei giudici ha chiesto di cambiare funzioni. Dopo le modifiche dell’ordinamento giudiziario del Governo Berlusconi del 2006 (nota come riforma Castelli), che hanno limitato i casi in cui è possibile il cambiamento di funzioni, le richieste sono state (periodo 2011/2016) del 0,21% dei p.m. e del 0,83 % dei giudicanti. La riforma Cartabia ha ulteriormente limitato la possibilità di cambiamento di funzioni. Nel 2022 il cambiamento di funzioni è stato chiesto solo in 40 casi.

Ce n’è a sufficienza, allora, per dire che la vera motivazione della proposta di riforma costituzionale non è tecnica, ma squisitamente politica. Si ritiene preferibile a un pubblico ministero, parte imparziale, formato alla stessa cultura della giurisdizione del giudice e “governato” dallo stesso CSM, obbligato per legge a ricercare le prove anche a favore dell’imputato, un pubblico ministero che svolge solo funzioni di accusa, una sorta di avvocato della polizia giudiziaria. E’ naturale, allora, che non tutti i reati dovrebbero essere accertati ma solo quelli che la maggioranza del momento ritenga di perseguire, approvando apposite leggi in proposito. Questo è quello che è scritto esplicitamente nell’art. 10 del disegno di legge, secondo cui il “Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” ma solo “nei casi e nei modi previsti dalla legge”.

E’ evidente che un pubblico ministero di questa natura e con questi poteri non può essere irresponsabile, ma, prima o poi, in una forma o nell’altra, dovrà rispondere non a un organo di garanzia come il proprio CSM (in cui, peraltro, come ho detto, i pubblici ministeri eletti dovrebbero essere non più i 2/3 ma solo la metà dei componenti), ma a un organo politico e cioè al Ministro.

E’ bene che l’opinione pubblica cominci ad occuparsi di questi temi.

 


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