Femminicidi, prima della pena necessaria formazione dalla scuola dell’infanzia

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Non è l’8 marzo e neanche il 25 novembre, eppure non possiamo tacere, perché davanti alla strage di donne che si registra quotidianamente nel nostro Paese il silenzio è parte del problema. E sorprende, o dovrebbe sorprendere, il fatto che non parta un’onda di indignazione collettiva, non scatti un movimento di riprovazione sociale davanti a un fenomeno che riguarda metà del genere umano, più di metà della popolazione italiana, e che ha alla base, per parafrasare Cioran, l’inconveniente di essere nate donne.Perché il femminicidio, ovvero l’assassinio di una donna perché donna, — come ci ricorda Christelle Taraud, storica ed esperta di questioni di genere non è né solo un atto individuale, né solo un atto isolato che può essere ridotto ad “anomalie” della mascolinità: è un aggregato di violenza contro le donne che le colpisce dalla nascita alla morte e si ritrova in tutte le epoche e in tutti i continenti. Aggregato che è il frutto di una cultura di discriminazioni che hanno pesi diversi, ma tutte contribuiscono a generare quella violenza, che anche oggi nonostante gli innegabili passi avanti compiuti si fa fatica a riconoscere e si finisce quindi col legittimare: alcune sentenze delle ultime settimane comprovano l’idea che la donna sia un oggetto a disposizione e non un soggetto titolare di diritti e che sia dunque normale disporne senza necessariamente chiedere il consenso, violare lo spazio della sua libertà da cui ha avuto l’ardire di uscire, rischiando prima del pronunciamento di un giudice la condanna del tribunale della pubblica opinione per essersela cercata. Vale per chi si mette una gonna considerata troppo corta o troppo attillata, per chi decide di lasciare il proprio compagno, valeva anche — come racconta Benedetta Tobagi nel suo ultimo libro — per chi entrava nella Resistenza anziché starsene a casa propria come brave ragazze e non si difendeva abbastanza, lasciando che i carnefici si prendessero il proprio corpo e “scegliendo” di subire la violenza anziché farsi (eroicamente) ammazzare. E allora come oggi non era facile denunciare: a fronte di una rischiosissima esposizione non c’era e spesso non c’è ancora uno Stato a difenderci, come ci ripetono le morti di Anna Scala e di Celine Frei Matzohl. Ciò nonostante abbiamo uno dei sistemi più efficaci ed evoluti, che tuttavia non viene applicato in maniera adeguata, al punto che l’Italia negli ultimi due anni è stata condannata quattro volte dalla Corte europea dei diritti umani per sostanziale tolleranza e passività della magistratura in questo campo.

Che questa non sia una priorità lo ha dimostrato il Covid e i risultati di una ricerca, la prima in Europa, realizzata dalla professoressa Patrizia Romito dell’Università degli Studi di Trieste, con l’epidemiologa sociale Marie-Josèphe Saurel-Cubizolles e l’operatrice del Centro antiviolenza Goap Martina Pellegrini: «una misura cautelare» scrivono nelle conclusioni «per essere efficace e proteggere le vittime, dev’essere applicata con lo stesso rigore con cui si è applicato il distanziamento fisico per proteggere la salute pubblica».

Ma prima di tutto c’è la formazione, e non solo dei magistrati e delle forze dell’ordine: è dalla scuola dell’infanzia che bisogna cominciare a insegnare il rispetto. Solo così forse un giorno non staremo qui a contare le vittime; solo così forse un giorno anche gli uomini si indigneranno davanti a una battuta sessista e alla denigrazione, alla sottovalutazione e all’estromissione delle donne. E la vita di una donna varrà finalmente quanto quella di un uomo.


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