L’utopia possibile è l’educazione per tutti a parità di condizione. Intervista inedita a Marc Augé

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Professor Augé, lei chiama “non-luoghi“ quegli spazi fuori del tempo e dello spazio che annientano le relazioni sociali e pertanto sottraggono umanità agli uomini.  

I non-luoghi sono luoghi sui quali non si possono individuare le relazioni sociali. In altri termini, in antitesi ai villaggi tradizionali in cui si può analizzare la ripartizione della società nello spazio, un non-luogo è uno spazio in cui le persone si trovano una per una, isolate le une dalle altre, in cui non si può individuare qualcosa della loro relazione sociale. Penso a quei raggruppamenti casuali che si formano negli aeroporti o nei supermercati o altrove. In quelle situazioni certo si possono fare incontri, si può dare il caso che delle persone facciano conoscenza, ma in sé e per sé i non luoghi non contengono questa possibilità. Vi si trovano invece persone prese dal loro viaggio, dai loro acquisti e che sono isolate e separate le une dalle altre.

Il non-luogo può essere anche uno spazio di comunicazione. Potrebbe sembrare strano parlare di “uno spazio di comunicazione”, perché si suppone che nella comunicazione si stabilisca una relazione, o che almeno attraverso i media, per definizione, si stabiliscano dei rapporti. Ma quando parlo della relazione, di una relazione tra esseri umani, parlo di una relazione simbolica, che si crea nella coscienza del tempo e dello spazio, mentre i media aspirano all’ubiquità e all’istantaneità. Al tempo stesso ci si può chiedere qual è la natura della relazione che mettono in campo. Vede io sono colpito da immagini come questa: un uomo e una donna al tavolo di un caffè, ciascuno col suo smartphone, che dialogano con qualcun altro. In altri termini un simulacro di relazione si frappone alla possibilità di una relazione concreta.

Allora ritorno sull’opposizione luogo/non-luogo, perché un luogo è un luogo di relazioni, ma sono relazioni obbligate […] l’archetipo del luogo è il villaggio nel quale ciascuno è al suo posto, posto che non ha scelto: in certe società tradizionali ci sono regole di residenza, per esempio, che impongono di vivere, nei rapporti parentali o matrimoniali con questa o quella persona. Al limite siamo davanti a una fotografia dello spazio che dà un’immagine della società, del sociale. Ma se ci si riferisce all’individuo si vede come non possa affatto, o solo difficilmente, uscire da questo spazio: il senso sociale della relazione si definisce in opposizione alla libertà individuale, all’autonomia individuale. Un luogo non è necessariamente un luogo di felicità, perché stare sotto lo sguardo altrui tutto il tempo non è proprio la felicità. In compenso un non-luogo può essere un luogo d’incontro; se non c’è niente di previsto, l’incontro è possibile. Dopo tutto, nei romanzi medievali, i cavalieri erranti nella foresta si trovavano in un non-luogo. Nella foresta non si dà alcun tipo di relazione. I cavalieri erranti errano per incontrare qualcuno, qualcosa. Declinano la loro identità all’ultimo momento, come si fa in aeroporto prima di imbarcarsi. In altri termini quello che si può ricavare dall’opposizione dei non-luoghi e dei luoghi non è necessariamente l’opposizione della felicità e dell’infelicità, ma la coscienza del fatto che ogni incontro implica, che ogni felicità implica, in una forma o in un’altra, la presenza dell’altro, ed è una messa in gioco del tempo e dello spazio, cioè della materia prima del simbolico.

I social network sono dei luoghi o dei non-luoghi?

Ebbene, nella misura in cui corrispondono a relazioni artificiali, arbitrarie o casuali, sono dei non-luoghi. Ma credo che quando siano utilizzati dalle persone per darsi un appuntamento – come succedeva con la pagina delle inserzioni sui giornali – per conoscere e incontrare qualcuno, questa è un’altra cosa. Ma, nel complesso, su Twitter o su Facebook si lanciano messaggi, senza sapere chi li riceverà, allo scopo di stabilire una relazione, nella speranza che siano letti, come una bottiglia in mare. I social non sono luoghi d’incontro.

Con le nuove tecnologie possiamo disporre su un telefono di tutti i libri del mondo. Che ne sarà delle biblioteche?

Credo che ci sia ancora un senso nel tenere in mano dei libri, in biblioteca o altrove. È vero che le biblioteche stanno perdendo la loro importanza nella misura in cui, se siamo tecnicamente attrezzati, possiamo avere in tasca l’equivalente della Biblioteca del Congresso. Ma quello che mi sembra importante nella lettura è il fatto di appropriarsi un testo, di esserne quasi l’autore. E forse questo si fa più facilmente a casa, nell’intimità, che non su uno schermo. Sulla questione delle biblioteche sono incerto, perché ci vuole determinazione per isolarsi in una biblioteca pubblica, mentre a casa propria con un libro si stabilisce una relazione immediata. Davanti a uno schermo è un po’ più complicato. Parlerei più volentieri dell’avvenire del libro, che mi sembra sotto attacco, ma che dovrebbe resistere grazie alla sua materialità, al fatto che si possa avere con lui un rapporto fisico.

Addirittura in alcuni paesi la scrittura a mano non viene quasi più insegnata e i giovani imparano a scrivere quasi esclusivamente con la tastiera di un elaboratore elettronico.

Per quel che mi riguarda, rimpiango molto la scrittura a mano tanto più perché, anche a causa dell’età, non posso più scrivere con la penna: pertanto sono felice di aver imparato a scrivere su uno schermo, su una macchina. C’è un’appropriazione della scrittura che passa attraverso la mano e il gesto. Credo che nelle scuole bisognerebbe portare avanti l’insegnamento della scrittura. E questa mi sembrerebbe anche una buona formula per imparare a leggere, perché andando troppo in fretta e con troppa facilità si resta più lontano dalla lingua, più lontano dalla scrittura e in definitiva più lontano dagli altri. Credo che il gesto sia utile alla parola.

Lei ha scritto negli ultimi tempi che c’è un’utopia possibile. Qual è l’utopia possibile?

L’utopia possibile è l’educazione. Un programma educativo presuppone che tutti gli uomini siano educati a parità di condizioni – ideale da cui siamo molto lontani – che siano educati, cioè istruiti, allenati a pensare con la loro testa, a liberarsi da influenze non sottoposte alla critica. La formazione passa da una parte per l’istruzione, dall’altra per l’educazione sotto la guida di un altro, di una voce autorevole, la voce dell’altro. I media possono avere un ruolo di diffusione, ma bisogna che siano collegati dalla presenza di un educatore.

Grazie professore. Grazie anche per questa fatica a cui l’abbiamo sottoposto.

 

L’ intervista a Marc Augé è tratta da un’intervista televisiva registrata in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2019-2020 dell’Accademia Vivarium Novum nella Villa Falconieri di Frascati


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