Il nazionalismo non nasce come patrimonio della destra

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Giorgia Meloni non ha mai nascosto di avere al centro del suo progetto politico il tema del primato della nazione e non c’è occasione pubblica in cui non faccia appello all’orgoglio patriottico. Una stella polare che, di fronte all’impuntatura di Polonia e Ungheria sulle politiche migratorie della UE, l’ha spinta a dichiarare di non essere mai delusa da chi difende i propri interessi nazionali. È un’arma rispetto a cui la destra non teme rivali, essendosene impossessata da oltre cent’anni e utilizzandola come mezzo di disciplinamento sociale.

Il nazionalismo, però, non nasce come patrimonio della destra e nella sua fase di esordio, a partire dalla Rivoluzione francese, si serviva dell’identità nazionale come forza eversiva dei tradizionali assetti di potere, veicolo di rivendicazione di nuovi diritti e libertà. L’ideologia nazionale, legata ai concetti di umanità e libertà, continuò a proporsi come energia rivoluzionaria ed emancipatoria sino alla fine dell’800, quando la sua originaria dimensione solidaristica e popolare cedette il posto alla volontà di potenza. Lo stesso Lenin osservò la presenza, dopo la Rivoluzione francese, di «potenti movimenti borghesi progressivi di liberazione nazionale che trascinavano milioni di uomini alla distruzione del feudalesimo, dell’assolutismo, del giogo straniero». Solo in tal senso, a suo avviso, «i socialisti riconoscevano la difesa della patria».

Come molte altre astrazioni dell’universo politico, anche quello di nazione è un concetto polemico, un campo di contesa ideologica che va pertanto sempre contestualizzato. È bene precisarlo di fronte al tentativo di imporre un’idea di nazione a senso unico presentandola come una sorta di recinto valoriale della cittadinanza con cui rimodellare il confine della legittimazione politica. Meloni auspica un paese dove tutti sono patrioti, ossia «persone che antepongono l’interesse della nazione all’interesse di parte o di partito». Il sogno è bello, ma non è nuovo ed è anche insidioso.

Si tratta infatti di un’idea di patriottismo simile a quella del nazionalismo di inizio ‘900 che considerava la lotta per il primato della nazione un metodo di «redenzione» e «disciplina» nazionale per rinnovare il «patto di solidarietà di famiglia tra le classi della nazione italiana». Lasciava dunque immaginare l’esistenza di un interesse collettivo, incarnato dal mito della nazione, di cui però non si vedevano bene contorni, limiti, forme; era un interesse superiore al quale si dovevano sacrificare concreti e ben definiti interessi individuali o di classe, a partire dai diritti civili e sociali. Non a caso, in una fase di scioperi e proteste, Enrico Corradini disse che «ai nazionalisti preme che le scuole e le ferrovie facciano il loro dovere», a conferma che dietro la retorica del sentimento si celava, e neppure troppo, il desiderio di ordine e disciplina.

A questo tipo di patriottismo, realizzato poi dal fascismo, oggi la sinistra dovrebbe contrapporre un ideale diverso, ricordando innanzitutto che la nazione è un fenomeno storico e non, come crede la destra, «qualcosa che è naturalmente nel cuore degli uomini e dei popoli e prescinde da ogni convenzione». La patria non è «natura», ma un prodotto dell’ingegneria politica umana che ha valore e significato solo se è al servizio dei cittadini, non viceversa. Per la sinistra è poi indispensabile riflettere su come rifondare l’idea di nazione a un livello più alto, facendone uno strumento di partecipazione ed estensione della cittadinanza. Giuseppe Mazzini, citato dai nazionalisti e da Meloni stessa come loro padre nobile, poneva la nazione «in connessione strettissima con l’umanità» e diceva che «l’idea di nazione è indissolubilmente legata a quella di Europa».

Bisogna partire da qui e pensare ad una «più grande patria», quella europea, la sola in grado di amplificare le potenzialità politiche, sociali ed economiche di comunità che oggi vivono in confini ormai angusti e poco funzionali al miglioramento della loro qualità della vita. A metà ‘800 anche toscani, piemontesi, napoletani partecipavano agli ideali delle rispettive patrie, ma non si lasciarono sfuggire l’opportunità di costruire una nazione nuova e più adatta a interpretare lo spirito dei tempi.

Qualcosa di simile dovrebbe accadere oggi, essendo ormai evidente il rapporto inversamente proporzionale che lega la gravità e vastità dei fenomeni planetari in atto e la frammentazione nazionalista dell’Europa. Assistiamo, impotenti o sonnambuli, a un fenomeno paradossale: più si aggravano i problemi, più prevale la sindrome dell’assedio che impedisce alle classi politiche e alle popolazioni di unirsi per mettere in comune risorse ed energie. Abbiamo dunque bisogno di uno spirito patriottico che, scardinando quello etnico e guerrafondaio del XX secolo, si ponga il tema rivoluzionario della «grande patria europea», consapevoli dell’insufficienza dei confini politici e mentali nei quali da troppi anni siamo ingabbiati.

Pubblicato sul Corriere Bologna


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