“Un tradimento che toglie dignità al Paese”. Parla Dario Iacovacci, fratello del carabiniere ucciso in Congo con l’ambasciatore Attanasio

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«Il governo italiano ha tradito mio fratello, morto per difendere un ambasciatore del nostro Paese. Come potrà qualsiasi militare da oggi in poi sentirsi tutelato se lo Stato volta le spalle ai suoi “servitori“ più fedeli che perdono la vita in servizio?».
Fa fatica a pronunciare questo atto d’accusa Dario Iacovacci, fratello maggiore di Vittorio, il carabiniere trentenne ucciso in un agguato nella Repubblica democratica del Congo il 22 febbraio del 2021 insieme all’ambasciatore italiano Luca Attanasio e all’autista del World food programme Mustapha Milambo che li accompagnava in una missione nel Nord Kivu, regione dell’est del Paese.
Da sottufficiale della Marina è ancora più difficile accettare che né il ministero degli Esteri né l’Arma dei Carabinieri non abbiamo ancora deciso di costituiti parte civile. Ultima occasione utile per poterlo fare, dopo che per due volte l’Avvocatura dello Stato non si è presentata al Tribunale di Roma, la prossima udienza, fissata il 7 luglio, per il rinvio a giudizio di Rocco Leone e Mansour Rwagaza, i due dipendenti del Wfp accusati di “omesse cautele” che avrebbero favorito il triplice omicidio.
Dalla sua Sonnino, paese di 7mila abitanti sulle colline che digradano verso il Circeo, in provincia di Latina, dove Dario e Vittorio sono cresciuti, il fratello del carabiniere che faceva da scorta ad Attanasio ha deciso di rompere il silenzio che si era autoimposto come tutta la sua famiglia, «per rispetto delle istituzioni» e soprattutto «per garantire agli inquirenti  di poter svolgere al meglio le indagini».
Una scelta difficile ma necessaria perché «lo Stato ci ha voltato le spalle, dopo averci più volte rassicurati che non ci avrebbero lasciati soli nella nostra battaglia di verità e giustizia» sottolinea con fermezza Iacovacci.
“Da militare mi chiedo come si possano sentire tutti quei servitori dello Stato che vanno a difendere il proprio paese rischiando la vita sapendo che un carabiniere morto in missione come mio fratello sia stato abbandonato. Credo che il governo  italiano stia mettendo davanti ai suoi militari. ai cittadini e alle istituzioni qualche interesse a me sconosciuto. Quindi non è proprio vero che chi sbaglia poi debba pagare» è l’amara conclusione del suo “j’accuse” che mai avrebbe voluto pronunciare contro quello Stato che egli stesso, come suo fratello, “serve” con devozione ma che finora ha dimostrato che costituirsi parte civile non è una priorità.
A pesare sono soprattutto i rapporti diplomatici e i legami economici tra l‘Italia e l’agenzia dell’Onu, che ha sede proprio nel nostro Paese.
Il World food programme si oppone alla richiesta di rinvio a giudizio invocando l’immunità e non riconoscendo la giurisdizione italiana.
Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, alla vigilia della prima udienza, che si è svolta il 25 maggio, aveva dichiarato che «su Attanasio e Iacovacci il da farsi sarà deciso nell’interesse del Paese e della verità. Tuteleremo l’interesse nazionale nel modo migliore possibile». Ma a quelle parole non sono seguiti i fatti.
Anzi, sono prevalsi “interessi” che appaiono più importanti della richiesta di giustizia.
«Vittorio fino all’ultimo respiro ha tentato di difendere il suo capo missione. Lui, il suo dovere, lo ha fatto fino in fondo. Fino al sacrificio estremo della vita. Ha fatto bene il suo lavoro anche prima di partire per la missione, ma gli altri, e non mi riferisco solo a quelli del Wfp, avevano fatto altrettanto? Io non credo, se fosse stato così non sarebbe successo ciò che è avvenuto» è lo sfogo finale di Dario che insieme ai genitori, alla sorella e alla fidanzata di Vittorio, Domenica Benedetto, non hanno accettato la proposta extragiudiziale avanzata dal Wfp di un accordo risarcitorio e saranno dunque parte civile nell’eventuale processo che, una volta accolta la richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero, il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, vedrà sul banco degli imputati i due funzionari Onu che avevano organizzato la tragica missione del 22 febbraio di due anni fa.
Ma resta un’incognita: il 7 luglio la Giudice dell’udienza preliminare,  Marisa Mosetti, dovrà esprimersi sulla questione dell’immunità a cui si appellano gli indagati attraverso l’ufficio legale dell’agenzia delle Nazioni Unite.
E la mancata costituzione di parte civile dello Stato non sarà un fatto irrilevante.


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