Nessun crimine resti impunito

0 0

Il mandato d’arresto contro Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova, incriminati per il trasferimento forzato di migliaia di bambini ucraini in Russia, ha aggiunto un nuovo attore istituzionale, la Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi), nel conflitto tra Kiev e Mosca. Alla violazione del diritto internazionale, per l’aggressione militare a uno Stato sovrano, si affianca la denuncia di responsabilità per crimini di guerra e contro l’umanità. Istituita nel 1998 con lo Statuto di Roma, la Cpi sposta dunque sul terreno giuridico il confronto/scontro con la Russia. Perché, come ha dichiarato il procuratore Karim Khan, «nessuno nella vicenda ucraina ha licenza di commettere crimini nell’ambito della giurisdizione della Corte». Non stupisce che l’interlocutore russo abbia ridicolizzato, con parole triviali, l’incriminazione. Non solo l’Urss prima e la Russia poi non hanno mai aderito allo Statuto di Roma, ma si può ricordare che l’Urss si astenne anche sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948.
In tanta passività europea, a rimorchio della Nato, nell’assenza di una politica estera condivisa nell’Ue che identifichi fini, mezzi e limiti del proprio intervento nel contesto bellico continentale, il protagonismo della Cpi costituisce una corposa anomalia. Anche da parte ucraina è stata assicurata stretta cooperazione, per bocca del procuratore generale Andriy Kostin. È un impegno importante che fa ben sperare nella volontà di guardare senza pregiudizi e parzialità a tutti i crimini di guerra commessi in Ucraina. Perché lo sguardo su tale casistica è stato saggiamente esteso dalla Corte agli anni compresi tra la fine del 2013 e il presente.
La deportazione dei bambini è, infatti, solo la punta dell’iceberg di una fenomenologia di violenze sui civili, diventate la cifra di questo conflitto. Come degli altri recenti o in corso nel mondo (gli esperti discutono nel contarne almeno 17 ad alta intensità). Il confine che separava eserciti in armi e popolazione è caduto quando la tecnologia militare, coi bombardamenti aerei prima, le armi a lunga gittata, i missili o i droni poi, ha consentito di radere al suolo come obiettivi strategici ospedali, scuole, interi quartieri. E quando, affermatasi l’equazione civile=partigiano/nemico o civile=terrorista/spia, si sono potuti colpire con tiro mirato civili presunti sospetti.
Così è accaduto che il 24 maggio 2014, a Sloviansk, nell’Ucraina orientale, dei giornalisti inermi siano stati bersaglio di un lungo micidiale attacco dell’artiglieria ucraina. Il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli, l’attivista russo dei diritti umani, Andrei Mironov, e il fotografo francese William Roguelon non erano nemici né spie. Erano lì per capire e documentare quel sisma geopolitico che, dopo Euromaidan, stava aprendo una guerra fratricida tra ucraini. Avevano capito che la popolazione locale soffriva – ostaggio dei due contendenti, il governo di Kiev e la Russia – e che non si trattava di una crisi locale, ma che si giocava gran parte del futuro del continente.
Rocchelli e Mironov sono stati assassinati; Roguelon, ferito, sopravvisse e raccontò l’accanimento dell’attacco. Anche quello è un crimine di guerra, la cui responsabilità grava, per la magistratura italiana, sulle forze armate ucraine. E anch’esso è stato segnalato alla Cpi, che ha recepito la pertinenza e l’ammissibilità dell’esposto. Il duplice omicidio, tuttora impunito per un difetto formale nel processo italiano, ha voluto eliminare testimoni coraggiosi, ma scomodi, di una realtà taciuta dai media ufficiali. I quali ammantavano di patriottismo eroico la violenta riconquista ucraina del Donbass, già in mano ai separatisti. Era il preludio, quasi nove anni fa, del lungo calvario della popolazione civile, sacrificata alla geopolitica.

(da L’Espresso)


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21