Laura Ricci, “D’amore e d’altre minuzie”. Intervista all’autrice

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Laura Ricci, scrittrice, poeta, traduttrice ha pubblicato verso la fine del 2022 “D’amore e d’ altre minuzie”, Robin Edizioni. Si tratta di un canzoniere d’amore, lavoro della maturità dell’artista che ha fatto dell’amore l’oggetto della sua ricerca sia in prosa che in poesia. Non a caso l’esergo di “Voce alla notte”, una delle sue prime raccolte, portava i versi di Emily Dickinson, “Che l’Amore è tutto quello che c’è/ è tutto quello che sappiamo dell’Amore”. L’esergo di questo canzoniere  apre con una citazione di Claudio Magris “Amare è un incancellabile infinito presente”. Ricci ci avverte nel Prologo che, all’interno di una sorta di partitura musicale,  non parlerà delle infatuazioni adolescenziali, né del primo amore serio, che conduce quasi fatalmente al matrimonio, ma degli amori veri, pochi, dei veri grandi amori. Ce li racconta nei tre Intermezzi, introdotti da un Prologhetto, e su di essi riflette nella Ripresa con coda. Ma l’amore in generale ha nutrito e nutre la vita e la ricerca della poeta; c’è amore nel suo rapporto con la natura, nell’osservazione del ciclo delle stagioni, nelle piccole cose quotidiane, nell’attenzione agli altri “grande grazia è/ la cortesia”, nella ricerca della bellezza e della perfezione in un gesto semplice, come servire una tazza di tè. E tutto ciò lo ritroviamo in particolare nei Preludi. Un’altra passione ha caratterizzato la vita della scrittrice, la passione politica, che esprime nell’attenzione alle “altre minuzie”. L’impegno civile è dunque manifestato e espresso, accompagnato da una laica preghiera, nei Rondò, in cui sgrana, come in un rosario, i grandi terribili eventi che riguardano l’umanità intera e a cui spesso non diamo la dovuta attenzione, pur essi scandendo il nostro quotidiano e condizionando il nostro futuro. Come sempre la forma poetica di Laura Ricci si distingue per pulizia formale e chiarezza, pur mescolando in questa raccolta stili diversi, proprio come sono diversi i momenti della vita che ci racconta. In particolare  qui differenzia dalle restanti parti, con l’uso di versi più lunghi e sincopati, il Prologo, gli Intermezzi e i Rondò. “D’amore e d’ altre minuzie” è un importante lavoro di sintesi e di rielaborazione del percorso della scrittrice, un lavoro che non è ancora terminato, e il canzoniere si conclude perciò, non a caso, con un’Ouverture, che fa intuire nuove strade della sua riflessione. Di tutto ciò abbiamo parlato con Laura Ricci nell’intervista che segue.

Come avverti nel risvolto di copertina la raccolta è strutturata come una partitura musicale. Da dove nasce il bisogno di inserire questo tuo nuovo lavoro in una solida struttura?

Direi che non è un bisogno nuovo, in tutti i miei libri c’è, più o meno marcata, un’ossatura strutturale, e questo forse dipende, in senso generale, dalla mia formazione giovanile, di stampo molto francese e dunque molto attenta alla strutturazione del pensiero e del discorso, e dal fatto che sono convinta che inserire il proprio scrivere in un disegno – logico o illogico che sia – aiuti a non divagare nei contenuti e a perseguire precisione e originalità nello stile. La struttura, che io chiamo “costrizione amorosa”, induce a una paziente ricerca, che può produrre illuminazioni non scontate. Nello specifico, in questo lavoro poetico intendevo ricreare esplicitamente, con la parola, una partitura musicale, e questo proviene dal mio amore per le forme musicali e, probabilmente, dal fatto di avere praticato per lungo tempo, in gioventù, lo studio del pianoforte, tanto da avere interiorizzato, anche per quanto riguarda la scrittura poetica, il bisogno di inserirla in un contesto ritmico e metrico, sia pure di metrica non canonica o convenzionale.

Il tema dell’amore attraversa altre tue raccolte, in particolare “Voce alla notte”, “La strega poeta”, ma anche “In viaggio”. Che significato ha in questo momento della tua vita comporre un vero e proprio canzoniere d’amore?

Ha inevitabilmente il significato di un bilancio, un “bilancio d’amore”, considerando che mi accingo a varcare quello che in un’esistenza centenaria – che probabilmente per me sarà più breve – costituisce l’ultimo quarto, e che nel corso della mia vita il sentimento dell’amore, che per me è sempre stato fondamentale nelle sue molte forme, è diventato più universale e cosmico. Dimensione, questa, che negli amour-passion di coppia, senza minimamente svalutarli o rinnegarli, fa stemperare le pene d’amore sofferte, e al tempo stesso quasi li eternalizza, i grandi amori della nostra vita, nella loro forza e nella loro vitale bellezza, nella consapevolezza che non sono stati invano e che, come nell’esergo magrisiano che ho scelto per questo canzoniere, “Amare è un incancellabile infinito presente”. O almeno così è per me. È indubbio, poi, che all’idea del canzoniere mi ha spinto anche la recente traduzione che ho fatto del canzoniere di Elizabeth Barrett Browning Sonnets from the Portugaise: mi sono detta che anch’io avrei potuto scrivere un canzoniere d’amore, e ho cercato una strada personale e contemporanea per farlo.

L’introduzione di poesie tratte da “Voce alla notte” e “La strega poeta” è nel segno di una continuità o di una sistematizzazione?

Tornando al discorso già accennato sul bisogno di strutturare la mia scrittura, è senza dubbio nel segno di una sistematizzazione, pur se queste due raccolte avevano già una loro struttura autonoma. Ma in questo caso si tratta di una retrospettiva più ampia sull’amore, ho dunque inserito, e talvolta un poco rivisitato, alcuni componimenti che mi sembravano opportuni ed efficaci rispetto al contesto generale. Molto più semplicemente, ho anche pensato che queste due sillogi, pubblicate a suo tempo con LietoColle che tra l’altro ha cessato l’attività, sono ormai introvabili, e che dunque poteva valere la pena, in un contesto congruo, rimettere in circolazione alcune composizioni.

Quali sono i temi che ti stanno più a cuore e vuoi ribadire in questa raccolta?

Direi l’amore e la politica, entrambi nel senso più ampio e vasto del termine; e, almeno per quanto mi riguarda, la necessità di un loro ineludibile intrecciarsi per dare un qualche senso al nostro passaggio terreno.

Il rondò è una forma musicale caratterizzata dal periodico ritorno di un’idea principale lungo lo svolgimento di una composizione. Nel testo introduci tre rondò in cui accanto al ripetersi di un tema d’amore inserisci quelle che ironizzando chiami “altre minuzie”, che sono il tuo coniugare l’intimità quotidiana con la necessaria percezione politica del mondo. L’aspetto di una coscienza e di un impegno civile non è nuovo nella tua produzione, penso alla raccolta “Rose di pianto”. Vuoi esplicitare il senso di questo excursus dagli anni Settanta al 2014 accanto alla tua preghiera laica sull’Amore, che costituiscono i tuoi rondò?

Le sintetiche e asciutte sciagure politiche e ambientali rammentate nei rondò – tante catastrofi per altrettante “rose di pianto”, potremmo dire – punteggiano gli anni in cui ho vissuto i tre grandi amori che in questa silloge rivisito, a istillare il dubbio, che torna nella ripetuta preghiera d’Amore, se tra tante catastrofi e tanto universale dolore abbia senso “parlare gioire soffrire” di quel nostro unico, personale, particolare amore. La risposta non è esplicita, perché la poesia deve interrogare e suggerire più che dire tutto, ma naturalmente ha senso se quell’amore non ci espropria dalla percezione politica del mondo e da un Amore ben più vasto e generale, che è cura degli umani e del pianeta e che è il solo antidoto che potrebbe arrestare, almeno in parte, quanto di disumano e terribile ogni giorno accade. “Ma o Amore o Amore – recita infatti la mia preghiera laica – liberaci da tutti i mali a parte / il personale inevitabile male nostro”. Un male che tuttavia duole e, nel comprensibile chiudersi in sé, rischia di diventare una sofferenza che ottunde, un “male mostro”: “la mano / non volendo – lapsus – aveva scritto male mostro”, conclude la mia litania.

Con un riferimento ai luoghi del cuore della tua vita e al viaggio mistico nella luce che compi nel tuo poema “In viaggio” nell’ultima poesia approdi a Trieste, che appare metafora di una quindicesima stazione, nuovo porto di Saudade, ma forse meta dell’ultimo viaggio, viaggio di trasformazione. C’è qualcosa di più, che va oltre la conclusione de “La strega poeta: “… chiuderò l’ombrello dei miei/ piccoli esorcismi di suoni e di segni./ quello sarà il silenzio-/ né più dolore né bellezza”?

Hai visto bene, c’è sicuramente e volutamente qualcosa di più, che corrisponde a un percorso e a una trasformazione interiore personale. Non è un caso che l’ultima parte della mia partitura poetica – per usare un linguaggio musicale – è sottotitolata “Ouverture”, un brano musicale generalmente dedicato a un inizio. L’approdo a Trieste è proprio una metafora dell’ultimo viaggio, che ne “La strega poeta” preludeva al silenzio, a una fine, e che ora è invece sentito come una trasformazione che apre un nuovo e diverso inizio, non importa quale e di che tipo, se convenzionalmente religioso o di laica religiosità. È il sentirsi parte di un tutto universale in cui il nostro esistere è al tempo stesso insignificante e fondamentale quanto quello di un giunco, di una libellula, di un moscerino o di una particella chimica, che come nel pullulare di vita infinitesimale dell’allegoria finale che conclude il libro – il “delta che mare e fiume confonde” – può trasformarsi e prolungarsi in qualche altro da sé che la natura umana difficilmente può immaginare o prevedere. Non sappiamo nulla di quell’ultimo viaggio a cui alla mia età si comincia a pensare piuttosto insistentemente: nessuno, se non in letteratura o in arte, ce l’ha mai raccontato, e a me, in tutto questo dolore non mio ma del mondo, piace pensarlo più come una trasformazione liberatoria che come un abisso pauroso.


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