La crisi parallela democrazie-autocrazie

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Il primo nemico di ogni dittatore è il Parlamento. L’8 gennaio migliaia di estremisti di destra assalgono il Congresso di Brasilia. Lo devastano. Distruggono e saccheggiano tutto. La stessa sorte tocca al Planalto, la sede della presidenza della Repubblica, e alla Corte Suprema: gli altri due cardini della democrazia brasiliana.

I seguaci di Jair Bolsonaro invadono i tre palazzi delle istituzioni brasiliane sotto lo sguardo in molti casi indifferente della polizia. Il conteggio finale è di 46 feriti e di circa 1.500 arresti. Fortunatamente nessun morto. Poteva andare molto peggio.

In democrazia vince chi prende anche un solo voto in più: ma questa regola aurea non piace molto all’ex presidente populista Bolsonaro. Non a caso ha disertato il passaggio di consegne con Luiz Inàcio Lula da Silva, vincitore delle elezioni presidenziali con un distacco minimo di voti: il 50,9%. Il Brasile è spaccato in due tra Lula, sinistra, e Bolsonaro, destra. Ma il vincitore c’è: è Lula, l’ex operaio al suo terzo mandato di presidente della Repubblica brasiliana.

Bolsonaro ha preso molto male la sconfitta. Ha disertato il passaggio di consegne ed è partito per gli Stati Uniti. Da lì in Florida, vicino alla villa di Trump, il suo modello populista, ha assistito all’assalto del Congresso di Brasilia. Si è limitato a commentare: le proteste pacifiche vanno bene, i saccheggi e le violenze «sono illegali». Lula ha suonato un’altra musica: ha definito gli assalitori «fanatici fascisti», ha criticato l’assenza di informazioni dalle forze armate e dai servizi segreti. Ha accusato l’ex presidente: «Ho avuto l’impressione che fosse l’inizio di un colpo di Stato», gli è sembrato che i rivoltosi eseguissero «i comandi che Bolsonaro aveva dato». Il governo di Lula ha temuto e teme un colpo di Stato dei militari, molto corteggiati dall’ex presidente. Sembra che il golpe sia stato evitato per un soffio da trattative riservate tra i vertici delle forze armate ed esponenti del nuovo governo di sinistra.

La drammatica vicenda Lula-Bolsonaro somiglia molto alla pericolosa sfida Biden-Trump per la Casa Bianca. Accadde l’impensabile. Donald Trump non riconobbe la vittoria di misura di Joe Biden nelle elezioni per la presidenza degli Stati Uniti. Parlò di “brogli elettorali” e di “elezioni rubate”. Il 6 gennaio del 2021 migliaia di estremisti della destra trumpiana assalirono e occuparono il Congresso a Washington per qualche ora, con l’obiettivo d’impedire l’insediamento di Biden. Fu il modello dell’assalto al Congresso di Brasilia. Ora l’ex presidente rischia un processo per aver tentato un colpo di Stato. Anche gli Usa, come il Brasile, sono un paese spaccato a metà tra sinistra e destra.

Tuttavia nel mondo non soffrono solo le democrazie, anche le autocrazie (una volta date per vincenti per l’efficienza autoritaria) non se la passano bene. Vladimir Putin perde smalto. Da un anno non riesce a piegare Volodymyr Zelensky: nonostante i sanguinosi bombardamenti gli ucraini resistono e contrattaccano. L’immagine della superpotenza russa si appanna così come quella del presidente Putin. Le decine di migliaia di soldati russi morti, l’economia in affanno, l’orgoglio ferito della superpotenza euro-asiatica fanno crescere le proteste (per motivi diversi) sia dell’opposizione democratica sia dei gruppi iper nazionalistici.

Xi Jimping, alleato tiepido di Putin contro le democrazie occidentali, deve fare i conti con quattro gravi problemi: la ripresa tumultuosa dei contagi Covid, la stagnazione economica, la crisi demografica, le contestazioni a Hong Kong e nello Xinjiang (le prime di segno democratico, le seconde di natura etnico-islamica). Così il presidente cinese è costretto a fare tante marce indietro: sulla politica dello “zero Covid”, sulla limitazione delle nascite, sull’alleanza senza limiti con Putin.

Da settembre balla la Repubblica Islamica dell’Iran, anti occidentale e anti sionista. Cinque mesi fa Mahsa Amini, una ragazza di 22 anni, è morta perché indossava in modo “inappropriato” il velo islamico. I famigliari hanno accusato la Polizia Morale di aver arrestato, torturato e causato la morte della ragazza deceduta in ospedale dopo tre giorni di coma. Le autorità iraniane replicano: è morta per una malattia. Da allora si succedono le proteste di piazza di migliaia di persone, soprattutto di giovani. Le ragazze manifestano anche senza velo. La repressione è durissima: la polizia spara e arresta, i giudici condannano all’impiccagione i contestatori. La Repubblica Islamica creata dall’ayatollah Khomeini trema: teme una rivoluzione per la libertà e la democrazia.


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