Fine vita: il lungo, faticoso cammino per conquistare la pienezza di un diritto

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L’ipocrisia. E’ questo l’ostacolo da rimuovere. Nel rispetto, beninteso, di ogni credenza e di ogni orientamento etico, morale, religioso. Ma avendo, innanzitutto ben chiara una stella polare: quella che è riassumibile nell’evangelico precetto: fai al tuo prossimo quello che vorresti fosse fatto a te. La domanda, a questo punto è: ognuno di noi, a patto di non arrecare danno al “vicino” è o no libero di disporre come meglio ritiene, della propria vita e della propria fine?

Per essere ancora più espliciti: se si è adeguatamente informati, se si assume una decisione che riguarda direttamente e solamente il nostro essere, se non arreca danno o pericolo a un “prossimo”; se in “scienza e coscienza”, siamo, ognuno di noi, liberi di assumere una decisione senza che nessuno (istituzione o persone) interferisca? La risposta non può che essere affermativa. Il credente obietta: “La vita à un dono”. Rispettosamente si può contro-obiettare che di un dono, una volta ricevutolo, ognuno è libero di disporne come ritiene più opportuno. Si può aggiungere che non si parla di obblighi o di imposizioni. Piuttosto di facoltà, di diritti che ognuno è libero di esercitare o di non avvalersene. “Si può fare” non significa che “si deve” fare.

Poter divorziare e potersi rifare una famiglia non significa che si è obbligati a farlo. Poter interrompere una gravidanza, non significa essere obbligati a farlo. Poter decidere quando la vita per malattie dolorose e irreversibili è un pedaggio, un avvilimento, una mortificazione intollerabile, non significa essere obbligati a porvi automaticamente fine. Questo tipo di ragionamenti ricordo che si provava a svilupparli, con alterna efficacia, fin dal 1974: era l’anno in cui Democrazia Cristiana, Movimento Sociale e ambienti conservatori del Vaticano avevano chiamato il paese a pronunciarsi con un referendum se mantenere o no in vigore la faticosamente conquistata legge sul divorzio, la Fortuna-Baslini, che andrebbe chiamata oltre al nome dei due firmatari, anche Pannella-Mellini, visto che il visto che i veri due motori dell’operazione politica furono i due leader radicali. In quelle settimane di appassionata contrapposizione e vero confronto, la ricorrente accusa era: “Dopo il divorzio, volete l’aborto e l’eutanasia”.

Si aspettavano un NO, non è così, per rimbeccare. Restavano puntualmente spiazzati quando confermavi: “Sì, un passo alla volta: prima il divorzio, poi aborto, infine eutanasia”. E’ una triade fondamentale di diritti civili e umani. I divieti molto spesso sono assurdi e di pochissima efficacia. Nei casi specifici, lo sapevano tutti: che non si potesse divorziare non impediva lo sfascio delle famiglie: i ricchi pagavano salati conti alla Sacra Rota vaticana e annullavano le nozze, padri e madri di covate di figli per impotenza creativa; e si risposavano; oppure divorziavano all’estero; o “semplicemente” convivevano. Stessa cosa per l’aborto: un “viaggio” in Svizzera o in Regno Unito, chi se lo poteva permettere, o una clinica con compiacenti “cucchiai d’oro”; i poveracci nelle mani di mammane e fattucchiere: ogni anno una media di almeno mezzo milione di donne uccise in questo modo, o orribilmente mutilate, oltre le umiliazioni e i sensi di colpa. In compenso, gli antiabortisti erano anche in prima fila nel contrastare informazione sessuale e diffusione di anticoncezionali. Una delle prime manifestazioni a cui chi scrive ha partecipato, era con un cartello indosso: “Più pillola, meno aborti”. L’eutanasia, infine: vietata, ma praticata. Negli ospedali, nelle cliniche.

Non v’è persona che non abbia vissuto in prima persona o sia a conoscenza di persone che l’abbiano vissuta: congiunti preda di malattie senza scampo e dolorosissime, e allora scatta al medico, all’infermiere l’implorazione: mettete fine a questa sofferenza senza scopo; e una mano pietosa “esegue”. Fenomeno diffusissimo per quanto negato. Pensate: in Parlamento più volte si è negato in consenso a un’inchiesta per accertare le dimensioni del fenomeno. L’ipocrita “si fa, ma non si dice”, ha sempre prevalso; si capisce: si conoscesse ufficialmente quello che si sussurra e si racconta a mezza voce, sarebbe impossibile ignorare il problema come invece tanti si ostinano ancora a fare. Ma i tempi cambiano, mutano. La questione del fine vita è di prepotente attualità, portata da casi di cronaca che non è possibile celare; da ultimi le vicende di Fabio e di Federico: il primo sceglie, dopo aver invano chiesto che fosse applicato il diritto riconosciuto al suicidio assistito, la sedazione profonda; mette così la parola fine a un calvario fatto di atroci sofferenze senza scopo e speranza. Il secondo ottiene di poter usufruire di questo diritto, ma solo dopo che l’associazione Luca Coscioni, con apposita sottoscrizione, acquista il necessario macchinario e il farmaco. La questione è certamente lacerante. Si sia credenti (di non importa quale credenza), o laici irriducibili convinti che il dopo vita sia un “nulla” infinito, non c’è dubbio che è una questione che non può che essere affidata alla volontà e alla coscienza di ciascuno. Lo Stato, le istituzioni, le leggi non possono che inchinarsi rispettosi, di fronte al volere espresso dall’interessato e da lui solo.

Dunque la questione non può essere una prateria allo stato brado; ma deve essere regolata da fasci di leggi il più possibile flessibili, e che favoriscano il più possibile la persona che si trova ad affrontare questi ardui dilemmi: facoltà massime, minimi obblighi. L’informazione da questo punto di vista assume un ruolo fondamentale. Molto si è fatto con l’introduzione del testamento biologico: ognuno di noi può lasciare disposizioni da seguire una volta che si precipita in uno stato di incoscienza, o delegare persona di fiducia a decidere in sua vece. Per evitare casi penosi come quelli di Eluana Englaro. Altro passo in avanti, l’introduzione tutto sommato recente delle cure palliative: molte atroci sofferenze vengono in questo modo lenite, e un malato può decidere per questo di continuare tratti di esistenza in condizioni sfavorevoli ma non fisica tortura. Con il caso di Dj Fabo, il ragazzo andato a morire in Svizzera, si è sancito che chi lo ha aiutato nel “viaggio” (Marco Cappato) non è colpevole; già in precedenza analoghe sentenze erano state emesse, anche se con minore eco mediatica.

Per Dj Fabo c’è stato anche pronunciamento della Corte Costituzionale, che ha grandemente contribuito a fissare “binari” che hanno di fatto ulteriormente smussato aspetti controversi e discutibili. C’è poi il caso di Marina Ripa di Meana: anche lei, torturata da una vita che non sentiva più sua e soprattutto non più degna d’essere vissuta, inizialmente voleva sottoporsi a un “viaggio” di sola andata. Dall’amica Maria Antonietta Farina Coscioni ha saputo che c’era una possibilità “altra”, riconosciuta anche dal mondo cattolico: quella della sedazione profonda. Ne ha fatto uso, e in modo indolore, rapido (qualche ora) ha posto fine alla sua sofferenza. L’ultimo suo messaggio registrato: “Fatelo sapere”. E si torna alla questione della “conoscenza” dell’informazione, del sapere di quali diritti e facoltà si è titolari. Infine gli ultimi due casi. Fabio per le sue condizioni poteva anche lui optare per la sedazione profonda. Ha invece voluto condurre una iniziativa politica per il suicidio assistito. Una decisione motivata con la preoccupazione per il dolore provocato alla famiglia: pensava che parenti e amici avrebbero meglio sopportato una morte che si consuma in pochi minuti, piuttosto che un decorso che può comportare alcuni giorni. Una preoccupazione che merita rispetta e gli fa onore. Per questo ha intrapreso una lunga u battaglia giudiziaria perché venisse riconosciuto in diritto al “suicidio” assistito.

Diritto che gli è stato riconosciuto, salvo che una quantità di assurde miopie burocratiche hanno reso per mesi questo diritto inapplicabile. Piegato dalle sofferenze e dall’attesa Fabio ha poi scelto la sedazione profonda, in poche ore ha cessato di soffrire. Federico, è un amaro paradosso, è stato più “fortunato”. Lui ha potuto usufruire del suicidio assistito, ma nei termini in cui s’è detto: non solo cosciente e consapevole del suo gesto, ma anche pagandosi (tramite l’associazione Coscioni), la morte. E ora? Il caso di Federico è insieme una nuova frontiera nella gestione del morire, ma occorre anche vigilare che non apra a pratiche di morte assistita “fai da te”. Occorre evitare forme di sopruso da parte di una burocrazia miope e spietata: il rispetto della volontà della persona e della sua dignità non devono essere, come è accaduto, disattese e negate; e poi conquistate pagando i prezzi che sono stati richiesti.

Occorre promuovere la partecipazione, favorire il dialogo tra scienzia1ti, ricercatori, operatori dell’informazione, cittadini: solo così si sarà all’altezza delle sfide che segnano e caratterizzano la nostra epoca, per riuscire a scuotere una classe politica miope e intorpidita, diventare tutti cittadini consapevoli e non sudditi passivi. Si tratta, in sostanza, di riuscire a opporre il potere della “parola” alle “parole” del potere. Occorre scongiurare che possa prevalere, è un qualcosa di incombente, il trionfo del sopruso di una burocrazia miope e spietata; e una non meno incombente speculazione rapace, pronta a lucrare anche su questo epilogo di dolore e disperazione. Il punto, infine, è sempre lo stesso: il rispetto della volontà della persona e della sua dignità, che ancora troppe volte vengono disattese, pervicacemente negate.    Ai legislatori e a tutti noi, ci si permette di ricordare Tommaso Moro: cattolico, umanista, scrittore, politico inglese Lord Cancelliere d’Inghilterra tra il 1529 e il 1532 sotto il re Enrico VIII).

Si rifiuta di accettare l’atto di Supremazia del re sulla chiesa in Inghilterra, e per questo viene accusato di tradimento e condannato a morte. Nella sua opera più famosa, “Utopia”, scrive: «Nella migliore forma di repubblica i malati incurabili sono assistiti nel miglior modo possibile. Ma se il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente continue sofferenze allora sacerdoti e magistrati, visto che il malato è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri, gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a morire liberandosi lui stesso da quella vita amara, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri… sarebbe un atto religioso e santo». Moro viene beatificato nel 1886; canonizzato da papa Pio XI nel 1935. Nel 2000 papa Giovanni Paolo II lo proclama patrono dei governanti e dei politici cattolici.


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