Guerre selettive, droghe e strategie: “Killer High” di Peter Andreas

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«Non si può capire la guerra senza conoscere le droghe e non si possono capire le droghe senza conoscere la guerra.» È questo l’assunto da cui parte Peter Andreas per scavare nella Storia umana, quella moderna e contemporanea in particolare, per scoprire il ruolo decisivo che le sostanze psicoattive – pesanti, leggere, lecite, illecite, naturali, sintetiche – hanno e hanno avuto nei conflitti armati.

Perché se da un lato gli eserciti contemporanei vengono schierati su un numero di fronti sempre maggiore per combattere la droga, dall’altro i soldati combattono sempre più “fatti” di droga, letteralmente.

Molti di coloro a cui è affidato il compito di fare la guerra continueranno a cercare aiuto nelle droghe, che siano prescritte o auto-prescritte, esattamente come è accaduto da… sempre praticamente, come si evince chiaramente e facilmente dalla dettagliata ricostruzione e analisi compiuta da Andreas.

Sono costantemente in aumento le prescrizioni di farmaci che aiutino i soldati ad affrontare le cicatrici fisiche e mentali riportate sul campo di battaglia. Migliaia sono i soldati americani, di ritorno dall’Afghanistan e dall’Iraq, che dipendono da essi.[1] Farmaci che contengono oppioidi.

Ma c’è anche un altro aspetto da considerare, ovvero la somministrazione di sostanze o farmaci psicoattivi fatta in maniera preventiva, ossia per stimolare e migliorare le prestazioni sul campo. Ai classici alcol, tabacco, droghe più o meno leggere, naturali o sintetiche, si affianca un uso sempre più consistente e diffuso dei cosiddetti farmaci antifatica, volti al miglioramento cognitivo e prestazionale dei soldati.

Un rapporto del laboratorio di ricerca dell’areonautica statunitense suggerisce di costringere i nemici ad attivarsi continuamente senza beneficiare di un sufficiente sonno quotidiano. E, naturalmente, per fare questo bisogna essere in grado di gestire la fatica dei soldati americani.[2] Non c’è da stupirsi dunque se diversi Paesi e ricercatori dell’esercito hanno sperimentato metodi per contrastare il sonno. Gran parte delle ricerche si è concentrata sul Modafinil, un farmaco che si ritiene causare meno dipendenza e meno effetti collaterali rispetto alle amfetamine. Già da oltre un decennio, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia distribuiscono compresse di Modafinil ai militari sul campo.[3]

Per Andreas è certo che l’impulso a dare vantaggi chimici alle truppe proseguirà, in quanto la crescente complessità dei combattimenti e i progressi tecnologici, stando anche alle parole dei ricercatori della MITRE Corporation (incaricata dall’ufficio di ricerca e ingegneria della Difesa del Pentagono), hanno aumentato la necessità di prendere decisioni tattiche rapide a livelli di comando inferiori e hanno quindi diffuso orizzontalmente a più persone la responsabilità di operare delle scelte di indirizzo.[4]

Ci si può agevolmente attendere che anche ribelli, terroristi e altri attori non statali continuino a ricorrere alle sostanze psicoattive per le stesse ragioni delle controparti statali. Con la grande differenza, però, che non avranno accesso legale alla crescente varietà di opzioni farmacologiche disponibili per gli eserciti contemporanei.

I resoconti indicano che lo Stato Islamico e Boko Haram hanno regolarmente drogato i bambini soldato prima di impiegarli per attacchi suicidi.[5] E sembra sia accaduto lo stesso nel caso di alcuni adolescenti kamikaze in Pakistan.[6] Tuttavia Andreas sconsiglia di giungere a conclusioni avventate. Pare che per alcuni combattenti basti l’ideologia estremista come stimolante, senza il bisogno di alcun aiuto chimico.

 

La piaga della droga, dal punto di sociale e non solo militare, è notevolmente profonda, radicata e diffusa. Molti Stati sembrano aver intrapreso delle vere e proprie guerre contro di essa. Ma per l’autore, quella contro la droga è una guerra altamente selettiva, che evita in tutti i modi di prendere seriamente di mira le case farmaceutiche che hanno pubblicizzato con tanta aggressività prodotti che creano dipendenza.

Verrebbe da aggiungere che gli Stati, Italia compresa, sembrano operare una guerra altrettanto selettiva con riguardo ai prodotti sui quali è apposto il sigillo del Monopolio: alcol e tabacco. E sembra farlo perché, comunque, sono fonte di copiose entrate per le casse sempre piangenti della nazione. Motivo che sembra essere stato alla base di tante operazioni di sfruttamento e commercio delle droghe fin dai tempi degli antichi Romani, in quelle che Andreas definisce «Guerre grazie alla droga», ovvero ai suoi proventi.

 

Stando ai dati riportati nel Libro Blu 2020 dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, il contributo per l’erario dai tabacchi è stato pari a 14.6 miliardi, mentre quello per energia e alcolici 29.10 miliardi di euro.

Sul sito del Ministero della Salute si legge che in Italia siano attribuibili al fumo di tabacco oltre 93mila morti. L’aggiornamento è del 31 maggio 2021.

Mentre, stando ai dati riportati dall’Istituto Superiore di Sanità e contenuti nel Rapporto 2022, sono 17mila i decessi annuali causati dall’alcool.

 

Parafrasando la celebre frase di Charles Tilly («Gli Stati fecero la guerra e la guerra fece gli Stati»), Lessing ritiene che oggi «gli Stati fanno la guerra alla droga e la guerra alla droga fa gli Stati», con dei seri rischi da non sottovalutare.

Uno dei pericoli è che le guerre della droga possano produrre un rafforzamento eccessivo di alcuni attori statali, creando stakeholders consolidati, dotati di autorità e discrezionalità sproporzionate, che si opporranno agli aggiustamenti politici necessari una volta che la violenza legata alla droga sarà diminuita.[7]

Del problema concreto che provvedimenti emergenziali diventino poi strutturali ne parla anche Barberis allorquando sottolinea la tendenza degli esecutivi di appropriarsi della legislazione in tempo di guerra tramite la decretazione d’urgenza. Poi le guerre finiscono ma i governi, compreso quello italiano che ufficialmente non entra in guerra da settant’anni, continuano a legiferare per decreto.[8]

Inoltre, Lessing ricorda che una parte fondamentale e spesso trascurata delle tesi di Charles Tilly è che può essere lo Stato, operando come un racket della protezione, a creare la stessa minaccia alla sicurezza contro cui in seguito fornisce protezione.

Sebbene non sia quello che Tilly aveva in mente, per Andreas il suo argomento può essere esteso alla guerra alla droga: con l’atto di criminalizzare la droga, lo Stato crea la minaccia, e ciò a sua volta offre allo Stato una ragione per reagire con una guerra alla droga sempre più militarizzata.

Dall’uso di oppiacei da parte dei soldati al loro impiego come arma o mezzo per il finanziamento, l’oppio e la guerra sono rimasti stretti a lungo in un abbraccio mortale. Il commercio dell’oppio e la costruzione degli Imperi andarono di pari passo nelle potenze occidentali, soprattutto in Gran Bretagna.

Londra mise il commercio dell’oppio nelle mani della sua Compagnia delle Indie Orientali, che all’inizio deteneva anche il monopolio sull’importazione di tè cinese.

Il tè e l’oppio trasformarono la Compagnia Britannica delle Indie Orientali nella corporation più potente che il mondo abbia mai visto.

Nella Prima Guerra dell’oppio gli americani restarono a guardare. Al contrario, la Seconda Guerra rimosse ogni argine.

Il Dipartimento di Stato appoggiò la richiesta del vescovo Brent di indire una Conferenza internazionale per il controllo del traffico dell’oppio, rendendosi conto di come fosse funzionale anche ad altri interessi strategici. In particolare, avrebbe agevolato una maggiore influenza statunitense nel Pacifico, segnatamente alle spese del principale concorrente, la Gran Bretagna, e avrebbe contribuito a rinsaldare i rapporti con il governo cinese, fortemente contrario al commercio dominato dagli inglesi.

Dopo aver combattuto due guerre dell’oppio internazionali con la Gran Bretagna, la Cina fu consumata da decenni di guerre dell’oppio interne, tra i signori della guerra in lotta tra di loro, nei primi decenni del Novecento.

Gli sforzi repressivi, nazionali e internazionali, spinsero il business dell’oppio nella clandestinità, anziché al fallimento. Per di più, incentivarono il mercato nero a smerciare derivati più compatti, portatili, occultabili e potenti – prima la morfina e poi l’eroina – anziché l’oppio tradizionale, che è molto più leggero e crea meno dipendenza.[9]

Oggi la Cina sta diventando un sempre più rilevante esportatore illegale di droghe sintetiche come il Fentanyl – che i distributori mescolano spesso all’eroina – verso i Paesi occidentali.

L’autore sottolinea come anche osservando le contemporanee guerre alla droga si evince chiaramente il loro limite strutturale. I trafficanti eliminati e la droga sequestrata, che gli Stati usano come misura del loro “successo”, sono in realtà facilmente sostituibili. Chiudere le vecchie rotte e togliere di mezzo i trafficanti fa semplicemente emergere nuove rotte e più trafficanti. Oltretutto, ne conseguono lotte per il territorio che possono alimentare ancor di più la violenza che l’invio di militari avrebbe dovuto sedare.

Come nel caso del Messico, dove il bilancio della violenza connessa alla droga si è militarizzata più che mai. Il dispiegamento di soldati per combattere la droga è stata una delle prime cose che ha attratto l’attenzione dell’autore e lo ha invogliato a indagare sempre più a fondo e sempre più a ritroso nel tempo.

Verso la fine di dicembre del 1989, gli Usa lanciarono l’Operazione Giusta Causa, invadendo Panama e arrestando il suo leader, il generale Manuel Noriega, con l’accusa di traffico di cocaina. Negli anni seguenti, la lotta alla cocaina rimpiazzò la lotta al Comunismo come fattore chiave delle relazioni militari di Washington con i suoi vicini meridionali.

Eppure, mentre negli anni Ottanta i ribelli afghani in lotta contro i sovietici, sostenuti dalla CIA, coltivavano e vendevano l’oppio per finanziare la loro causa, Washington, sulla falsariga delle esperienze nel Sudest asiatico, girava lo sguardo verso un’altra direzione.

Il traffico d’oppio fu ancora una volta il grande vincitore della più importante operazione sotto copertura della CIA dai tempi del Vietnam.

Per combattere l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, la CIA agì tramite l’Inter Services Intelligence (ISI – i servizi segreti pakistani) a supporto dei signori della guerra afghani, che ricorsero alle armi, alla logistica e alla protezione dell’agenzia per diventare signori della droga di primo piano.[10]

Le autorità statunitensi anche in questo caso sembravano ben consapevoli della situazione, ma chiusero un occhio in nome di obiettivi geopolitici di più ampio respiro: «Non lasceremo che una piccola cosa come la droga interferisca con la situazione politica – spiegò un funzionario dell’allora amministrazione Reagan – e quando i sovietici se ne andranno e nel Paese non ci saranno soldi, porre fine al traffico di droga non sarà una priorità.»[11]

Innumerevoli sono gli esempi riportati da Andreas nel testo, contraddizioni tattiche e comportamentali che giungono o risalgono alle Guerre per l’Indipendenza americana e ancor prima alle Guerre di conquista dei Romani. Un elenco infinito di situazioni che potrebbero anche sembrare surreali se non fossero tutte supportate da valide e certificate fonti documentali. Riguardo gli esempi più recenti poi sono o sono stati sotto gli occhi di tutti, per cui non ci sarebbe neanche bisogno di ricorrere a fonti che le attestino. Eppure l’autore lo fa con scrupolo e metodicità.

Sono per certo argomenti spinosi quelli trattati da Peter Andreas in Killer High, ci vuole una grande conoscenza per parlarne come egli ha fatto. E servono anche tanto coraggio e fors’anche un pizzico di incoscienza perché di sicuro non sono mancati coloro che hanno frainteso l’intento del libro o, peggio, hanno volutamente strumentalizzato il suo scopo.

Personalmente ritengo sia superfluo eppure necessario precisare che mai appare nelle intenzioni dell’autore screditare la figura del soldato o l’istituzione dell’esercito. E ciò, per chi legge il libro dall’inizio alla fine, è cristallino come acqua di sorgente.

Dal resoconto di Andreas si può dedurre che, in ogni epoca e luogo, i soldati hanno avuto necessità di «incoraggiamenti» e questa altro non è che un’ulteriore conferma dell’assurdità della guerra in generale ma di di quella sul campo in particolare.

Si può anche supporre e dedurre che questi «incoraggiamenti» di varia natura siano stati strategicamente veicolati e indirizzati per raggiungere scopi e obiettivi altrimenti improponibili. Anche che siano stati oggetto ripetuto di speculazioni.

Quel che è sicuramente certo è che, leggere Killer High, aiuta a meglio comprendere la Storia sì, ma ancor di più l’attualità e le sue guerre.

Si chiede Andreas cosa accadrebbe se la guerra alla droga dovesse in qualche modo finire. Finirebbe anche la violenza?

Alcuni considerano la dichiarazione di pace come una sorta di bacchetta magica, soprattutto se concerne la legalizzazione della droga. Certo, la legalizzazione priverebbe l’enorme commercio illegale planetario dei suoi profitti gonfiati dal proibizionismo, che alimentano la violenza e finanziano terroristi e insorti. Ma l’autore sottolinea come, con ogni probabilità, i narcotrafficanti in breve tempo diversificherebbero i loro affari e si rivolgerebbero ad altre attività illecite, come fecero i boss mafiosi statunitensi dopo la revoca del proibizionismo dell’alcol.

Il fascino di un’idea del genere è comprensibile. Eppure Andreas mette in guardia il lettore da un eccesso di elogio riguardo i suoi potenziali effetti pacificatori. Non tutta la violenza è connessa alla droga, perché gli affari vanno ben oltre gli stupefacenti.

Non bisogna dimenticare che la proibizione della droga e gli elevati volumi del narcotraffico precedono di gran lunga le recenti ondate di violenza. Il che suggerisce che non sono solo il proibizionismo e i flussi di droga in sé a innescare la violenza, ma le modalità specifiche con cui le leggi antidroga vengono applicate o disapplicate.

E questo solleva l’ardua questione di come la pace possa essere raggiunta facendo a meno della legalizzazione, in base anche al principio avallato dall’autore che il proibizionismo è indispensabile per la guerra alla droga, ma la guerra alla droga non è indispensabile per il proibizionismo.

Per esempio, invece di persistere nella repressione militarizzata della guerra, il governo messicano potrebbe impegnarsi maggiormente per assegnare la priorità alla limitazione della violenza, più che dei narcotici.

Bisogna inoltre riconoscere che la guerra stessa può essere pensata come una droga. In fin dei conti, sarà probabilmente la guerra l’abitudine, o la dipendenza, più difficile da sradicare.

Un mondo senza conflitti sembra purtroppo realistico quanto un mondo senza droga. E per Andreas l’unica cosa che si può prevedere con qualche certezza è che le droghe e la guerra proseguiranno nel loro abbraccio mortale.

Una conclusione che potrà anche sembrare brutale ma che è, purtroppo, molto realistica e ponderata sull’analisi di due millenni di Storia ormai durante i quali questo mortale abbraccio ha cambiato sostanze psicoattive ma non ha cambiato granché i modi, i metodi e gli scopi.

Killer High. Storia della guerra in sei droghe di Peter Andreas è un testo sorprendente perché mai il lettore che si accinge a leggerlo può preventivamente comprendere la reale grandezza del suo contenuto. Un libro necessario.

 

Il libro

Peter Andreas, Killer high. Storia della guerra in sei droghe, Meltemi Editore, Milano, 2021.

Titolo originale: Killer high. A history of war in six drugs.

Traduzione di Andrea Maffi e Paolo Ortelli.

 

L’autore

 

Peter Andreas: politologo e docente di Relazioni internazionali alla Brown University.

[1]Q. Lawrence, A Growing Number of Veterans Struggles to Quit Powerful Painkillers, All Things Considered, National Public Radio, 10 luglio 2014.

[2]W. Saletan, The War on Sleep, in “Slate”, 29 maggio 2013.

[3]Ibidem.

[4]MITRE Corporation, Human Performance, JSR-07-625, MITRE Corporation, McLean (VA), marzo 2008, https://fas.org/irp/agency/dod/jason/human.pdf

[5]l. Iaccino, Why Tramandol Is the Suicide Bomber’s Drug of Choice, in “Newsweek”, 13 dicembre 2017.

[6]I. Firdous, What Goes into te Making of a Cuicide Bomber, in “Express Tribune (Pakistan)”, 20 luglio 2010.

[7]B. Lessing, Making Peace in Drug Wars: Crackdowns and Cartels in Latin America, Cambridge University Press, Cambridge, 2017.

[8]M. Barberis, Non c’è sicurezza senza libertà. Il fallimento delle politiche antiterrorismo, Il Mulino, Bologna, 2018.

[9]J. Marshall, Optium and the Politics of Gangsterism in Nationalist China, 1927-1945, in Bulletin of Concerned Asian Scholars, vol. 8, n° 3, 1976.

[10]A. McCoy, The Politics oh Heroin: CIA Complicity in the Global Drug Trade, Lawrence Hill Books, Chicago, 2003.

[11]E. Sciolino, S. Engelberg, Fighting Narcotics: U.S. Is Urged to Shift Tactics, in New York Times, 10 aprile 1988.


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