Elisa Salerno: una giornalista dalla parte delle donne

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L’appuntamento di questo mese della rubrica “Dalla parte di Lei” è dedicato a Elisa Salerno, una giornalista nata a Vicenza nel 1873 dove visse fino alla sua morte. Il profilo di Elisa Salerno è curato con levità da Adriana Chemello.

Un lucente esempio di donna giornalista femminista che, nonostante le difficoltà incontrate, continuò tutta la vita nelle sue “campagne” di promozione delle donne e della loro forza nel mondo del lavoro e domestico per accrescerne l’autostima e dunque la dignità. Sappiamo che ancora non è facile muoversi con quelle caratteristiche per una donna, ma nei primi decenni del Novecento era particolarmente difficile.

Elisa fu tra le Donne di frontiera che credevano e operavano per un rinnovamento della Chiesa. La sua riflessione ebbe una latitudine estesa e non si fermò alla condizione marginale delle donne nella Chiesa ma affrontò le questioni sociali e i diritti civili col suo giornale “La donna e il lavoro” che fu costretta a chiudere ma senza rinunciare a scrivere parole schiette al Cardinale del tempo sull’utilità del giornale:

“…Sono circa un milione le operaie che si potrebbero definire col nome di schiave moderne e che hanno pochi amici buoni e operosi, molti amici falsi e malvagi, oltre a coloro che le sfruttano a tutto andare …

Elisa Salerno non pubblicò più per vent’anni: alla censura ecclesiastica si era aggiunta quella fascista. Continuò a scrivere articoli lettere raccolti in un archivio. In uno di questi del 1939 affronta il tema dello sfruttamento sessuale maschile sulla donna che riuscirà a pubblicare solo nel 1950. (MGG)

 

Elisa Salerno trascorse tutta la sua vita all’ombra della Basilica palladiana e del Duomo di Vicenza, tra le strade e le viuzze del centro storico e del quartiere di San Rocco dove si trasferì negli ultimi anni della sua vita assieme alle nipoti Elisabetta e Giulia. Era nata nella città berica il 16 giugno 1873 e concluse la sua esistenza terrena il 15 febbraio 1957.

La storiografia più recente che la sta rivalutando, dopo decenni di oscuramento della sua figura e di oblio dei suoi scritti, l’ha accostata a quel manipolo di donne spesso nubili per scelta che, tra fine Ottocento e i primi anni del Novecento, condusse con audacia e determinazione una campagna di promozione e di emancipazione della donna attraverso il giornalismo, la scrittura letteraria, le iniziative pedagogiche. Donne di frontiera che chiedevano un rinnovamento della Chiesa, una fede adeguata ai tempi, pur restando sempre abbarbicate alla loro fede cristiana. La Chiesa le osteggiò e le chiamò “eretiche”, alcune di loro subirono l’umiliazione della scomunica e venne loro negato il sacramento dell’eucarestia. Furono delle “femministe” ante litteram che si spesero con tenacia e con passione per il riscatto sociale e personale di tutte le donne, coltivando relazioni intellettuali e spirituali con figure autorevoli del Modernismo e con esponenti di spicco del mondo cattolico del loro tempo. Alcune di esse non esitarono a scrivere direttamente al Papa.

Il loro esempio e il loro coraggio meritano ancor oggi la nostra attenzione e la giusta considerazione delle loro storie.

Elisa Salerno è una di queste e, se le sue vicende biografiche, trascorse in una provincia veneta apparentemente marginale ed emarginata, sembrano prive di eventi eclatanti, in realtà scopriamo una sua “biografia” pubblica intrigante e travagliata nello stesso tempo.

Si definiva donna di “bassa condizione”, proveniva da una famiglia della piccola borghesia, il padre era commerciante di granaglie e proprietario di uno “stabilimento a molini”. Non riuscì a frequentare regolarmente la scuola pubblica, a causa di una salute cagionevole, ma ottenne la licenza elementare come privatista, con l’aiuto di don Giuseppe Fogazzaro, lo zio dello scrittore. Non rinunciò però agli studi verso cui si sentiva portata, continuando la sua formazione da autodidatta con la lettura della pubblicistica periodica non solo locale, e dedicandosi in particolare agli studi religiosi. Era molto ricettiva nei confronti delle problematiche sociali del tempo, desiderosa di intervenire con la pratica del fare in quello che definiva il “rovaio micidiale d’un industrialismo che rovina tante vite”. Il suo femminismo cristiano mirato all’“elevazione cristiana e sociale della classe operaia e della donna in ispecie”, si nutrì e corroborò nella lettura appassionata del periodico milanese “Pensiero e Azione” pensato e diretto da Adelaide Coari dal 1904 al 1908. Nel contempo prestava la sua collaborazione nel negozio gestito dai genitori. Dopo la morte della madre, la sorella Maria prese su di sé la conduzione del negozio, mentre Elisa si dedicò a gestire la contabilità dell’impresa paterna. Contemporaneamente si spese molto per l’educazione e la formazione delle due nipoti, Elisabetta e Giulia, che sarebbero rimaste con lei per tutta la vita, condividendone spesso l’impegno civile. Fin da giovinetta partecipò alla vita associativa nella sua parrocchia di Aracoeli, aderendo a congregazioni di carattere devozionale e in seguito alle prime associazioni femminili parrocchiali. Il tutto un po’ in sordina, in modo defilato e poco appariscente, facendo vita ritirata e quasi monacale.

A partire dai primi anni del ’900, la troviamo attiva nelle organizzazioni sindacali femminili, dove espresse una militanza attiva, fino ad aderire al convegno femminista di Milano del 1907. Tra il 1903 e il 1905 tenne una conferenza alle figlie di Maria, nella sua parrocchia di Aracoeli, poi pubblicata nelle colonne dell’“Azione Muliebre” nel gennaio 1906, dove indica le direttrici della sua azione sociale a favore delle donne: la diffusione dell’associazionismo femminile e la promozione dell’istruzione affinché la donna sia “strumento vivo di civiltà e di progresso” e non sia più disprezzata e considerata “ignorante, debole, leggera”.

Si spese molto a favore delle operaie, ma i suoi interventi non avevano un carattere meramente assistenziale, bensì formativo, teso a costruire in loro una coscienza dei diritti civili della donna nel mondo del lavoro e in quello domestico, e soprattutto a promuovere il senso della loro dignità.

Svolse il suo apprendistato giornalistico collaborando ad alcuni fogli vicentini, in particolare “Il Berico”, quotidiano cattolico, espressione dell’area più intransigente e critica nei confronti dello Stato liberale. Il rapporto spesso conflittuale con questo foglio è in parte narrato nelle pagine del suo romanzo autobiografico, pubblicato con lo pseudonimo di Lucilla Ardens, Un piccolo mondo cattolico ossia episodi e critiche pro democrazia e femminismo (Rocca S. Casciano, Cappelli, 1908). L’altro foglio a cui collaborò era il “Vessillo bianco”, organo delle Unioni professionali e dei democratici vicentini, fondato da don Attilio Caldana nel 1903. Il rapporto di Elisa con questo giornale, espressione del giovane movimento cattolico-sociale vicentino, fu più lineare e costruttivo, in quanto esisteva un interesse condiviso per le problematiche sociali.

Nei suoi articoli sosteneva la necessità e l’urgenza del riscatto della donna sia sul piano socio-economico che ecclesiale. La “missione della donna” non doveva più consistere nell’essere subalterna e sottomessa all’uomo: “Iddio che ha creata la donna per essere aiuto e compagna dell’uomo […] dubito che voglia ora fare il miracolo di salvare la società senza il concorso della donna” (“Il vessillo bianco”, 5 maggio 1906).

Rivolgendosi direttamente alle operaie, le spronava con l’affettuosa sollecitudine di una sorella: “Se volete adunque essere all’altezza della vostra dignità e della vostra missione, […] se volete essere apprezzate e conseguire i vostri legittimi diritti, studiate, istruitevi” (“Il vessillo bianco”, 25 febbraio 1905). Mentre rispetto alla loro emancipazione economica e sociale, sosteneva convinta: “non c’è […] conflitto tra funzioni familiari e funzioni sociali, tra lo zelo per il bene privato e quello pubblico, tutt’altro: ché anzi l’uno è il complemento dell’altro e […] il primo reclama il secondo”. Le prime destinatarie dei suoi scritti sono le operaie, verso cui nutriva un’affezione sincera, un’attenzione partecipata ai loro problemi, una tensione non solo intellettuale ad alleviarli.

Un progetto, quello portato avanti da Elisa Salerno con il suo giornale “La Donna e il lavoro”, unico nel suo genere e molto in anticipo sui tempi, soprattutto per la provincia veneta. Ma lei aveva compreso che per raggiungere i suoi obiettivi, per far cambiare la mentalità sulla donna, era necessario denunciare gli errori della subalternità femminile. Per questo nei suoi scritti prendeva di mira i teologi e il clero cattolico colpevoli di non essere veridici portatori ed interpreti del messaggio evangelico.

Era inoltre consapevole dell’ostilità dell’ambiente in cui si muoveva, ma non si lasciava per questo scoraggiare: “Far del femminismo a Vicenza è lo stesso come voler a forza di unghie scavar terra e terra onde trovare una vena d’acqua per dissetarsi. Qui l’apatia, là il conservatorismo, altrove il disprezzo, ovunque l’atavismo mantengono le donne nella passività e nell’abbandono” (“Il Vessillo bianco”, 5 maggio 1906).

Adriano Navarotto, già direttore de “Il Berico”, portavoce dell’intransigenza vicentina (“Gendarme del diritto e carabiniere dell’ortodossia”), la definì “l’intrepida Pankhurst vicentina” e insistendo in questo accostamento ebbe a scrivere che il periodico fondato dalla Salerno “poteva dar dei punti al londinese «The Suffraget» di miss Pankhurst”. Del resto, la nostra scrivendo nel 1909 a Giuseppe Toniolo diceva di sentirsi “prima cattolica e poi femminista”, una asserzione che ha la forza di un’iscrizione emblematica, esplicitata con l’affermazione “la base del mio femminismo è la religione”.

Al centro dell’interesse e della riflessione della giornalista non c’è solo la condizione marginale e avvilita della donna nella Chiesa, ma anche le questioni sociali, i problemi dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici. Alla sua battaglia per il riscatto morale della donna si affianca la rivendicazione tenace di un miglioramento delle condizioni di vita della donna operaia, quell’ “elevazione cristiana e sociale della classe operaia, e della donna in ispecie” che è il leit motiv del suo impegno pubblicistico. Non a caso amava definirsi una “lavoratrice del pensiero”, colei cioè che nell’interesse per le questioni morali, sociali e religiose cerca di scoprirne le ragioni profonde e le radici remote. In una lettera al padre dell’ottobre 1906, scriveva: “tu sai bene che in questa terra vi sono […] i lavoratori delle braccia ed i lavoratori del pensiero. Tutti secondo i doni di Dio… Ebbene io, nella mia pochezza, sento di appartenere ai lavoratori del pensiero, a coloro cioè che si occupano delle cose morali e sociali”.

Proprio da questa definizione che dava di sé, scaturiva quella che col tempo si sarebbe affermata come l’attività principale della Salerno: l’attività pubblicistica. Fin dal 1906, una delle sue più grandi aspirazioni era quella di possedere una stamperia per la pubblicazione di un giornale popolare, idea che prese corpo qualche anno più tardi, nel 1909, quando fondò il giornale “La Donna e il Lavoro”, rivolto alla classe lavoratrice femminile, poco dopo che il periodico del femminismo cattolico milanese “Pensiero e Azione” (1904-1908), diretto da Adelaide Coari, era stato costretto a chiudere per le ripetute accuse di modernismo. Giova ricordare, per comprendere la lungimiranza di questa donna pur nell’appartata provincia vicentina, che l’impresa giornalistica di Anna Kuliscioff “La difesa delle lavoratrici” sarebbe decollata solo tre anni più tardi.

I temi affrontati nelle colonne del giornale: il basso salario per le donne, l’orario di lavoro defatigante, il riposo settimanale, la tutela della maternità, gli abusi che le donne erano costrette a subire nelle fabbriche per non perdere il posto di lavoro.

Il vertice di questa esperienza giornalistica fu una Inchiesta sul lavoro delle lavoratrici, pubblicata dal giornale nel 1910, che lo stesso Giuseppe Toniolo apprezzò ed elogiò.

La vita del giornale fu tuttavia travagliata e contrastata dalle autorità della diocesi vicentina e dal vescovo, mons. Rodolfi che il 12 luglio 1917, con un atto pubblico e solenne della cancelleria vescovile, lo esclusero dal novero della stampa cattolica per le critiche aperte che esso indirizzava all’operato e agli insegnamenti della Chiesa verso le donne («Bollettino della diocesi di Vicenza», viii, 1917, n. 7). Molti suoi articoli infatti erano degli aspri J’accuse che avevano come bersaglio privilegiato gli errori della dottrina della Chiesa, accusata apertamente di “antifemminismo”. Sempre nel 1917, Elisa Salerno aveva pubblicato un pamphlet, intitolato Per la riabilitazione della donna, indirizzato “Al Sommo Pontefice Benedetto xv”, dove condensava le sue idee sul femminismo cristiano.

I problemi con le autorità ecclesiastiche erano iniziati già qualche anno prima, ed Elisa con tenacia e determinazione aveva cercato in tutti i modi di aggirare gli ostacoli posti sul suo cammino. Ne fanno fede un manipolo di lettere, conservate presso l’Archivio segreto vaticano, di cui alcuni stralci sono stati pubblicati da Mariano Nardello (“La Voce dei Berici”, 30 novembre 2014, p. 22). Il 9 gennaio 1915 Elisa Salerno scriveva al suo concittadino, card. Gaetano De Lai, segretario della Congregazione Concistoriale, pregandolo di «presentare al Santo Padre» una sua lettera in cui chiedeva di essere illuminata e consigliata sul prosieguo della missione che si era assunta:

L’essermi messa da me stessa nell’impegno di pubblicare il settimanale “La donna e il lavoro”, benché dopo preso consiglio, e con l’approvazione di S.E. mons. Feruglio, di veneratissima memoria, ed il costante abbandono di S.E. mons. Rodolfi, nonostante gli abbia sempre attestato obbedienza e devozione a tutta prova, mi fanno dubitare che Iddio non voglia da me tale opera, per cui temo che le mie fatiche e sollecitudini pel settimanale, anziché giovarmi, sieno un ostacolo alla mia santificazione. […] Dati gli scopi del settimanale, sento d’amarlo più di me stessa; pure se sapessi che Iddio non vuole da me quest’opera, troverei la forza, col divino aiuto, di rinunciarvi.

Si coglie in queste frasi un atteggiamento di modestia e remissività, ma nel contempo una testimonianza del trasporto quasi amoroso che la legava alla sua impresa giornalistica. Quali fossero gli scopi del suo giornale, Elisa lo esplicita in una lettera successiva, sempre rivolgendosi al card. De Lai (27 febbraio 1915) con parole schiette e veraci:

A rigore, si può dire che non esiste alcuna associazione generale per le operaie. Esse possono dare il loro nome all’Unione Femminile come donne cattoliche, ma non come operaie e non possono sperare che nello zelo volonteroso dei cattolici, i quali in certe plaghe svolgono un’azione esemplare, in altre lasciano molto a desiderare. […] Sono circa un milione di operaie che si potrebbero definire col nome di schiave moderne e che hanno pochi amici buoni e operosi, molti amici falsi e malvagi, oltre a coloro che le sfruttano a tutto andare. In tale stato di cose “La donna e il lavoro” è un tramite che imprime un certo qual carattere di unità, di uniformità alle opere in favore delle lavoratrici, un focolare di attività che propugna, sempre e ovunque, un movimento di difesa e di elevazione schiettamente cristiano papale. […] Il programma di questo periodico interessa un po’ pressoché tutte le grandi unioni nazionali cattoliche, a motivo dell’opera di rivendicazione cristiana, di giustizia sociale, di difesa del focolare domestico e della scuola libera e simili che è implicitamente od esplicitamente nel loro programma.

A fronte dell’ingiunzione vescovile, Elisa fece atto di sottomissione ma continuò a pubblicare il suo giornale fino al 29 novembre 1918. Dopo un mese di silenzio, il giornale ricomparve con periodicità trisettimanale e con il titolo mutato: “Problemi femminili. Periodico nazionale delle operaie, impiegate, professioniste”, evidenziando ancora una volta l’interesse verso tutte le donne lavoratrici. Il giornale cessò le pubblicazioni nel 1927 in seguito alle continue censure ecclesiastiche a cui si erano aggiunte quelle prefettizie.

Dopo più di vent’anni di giornalismo militante, tra dibattiti e polemiche, la voce di Elisa Salerno venne ridotta al silenzio dalla censura ecclesiastica a cui si aggiunse quella fascista. Seguì un ventennio in cui la sua firma scomparve dalla scena pubblica, mentre Elisa continuava assiduamente a scrivere e a pensare. Ora la sua scrittura si era fatta privata: manteneva contatti epistolari intensi, riempiva quaderni con la sua fitta scrittura, portando avanti le sue riflessioni sul femminismo cristiano e sull’esegesi scritturale. Affrontava nel 1939, in uno studio in anticipo sui tempi ma destinato a rimanere inedito fino al 1950, il tema dello sfruttamento sessuale maschile sulla donna, pubblicato con il titolo Le tradite (Vicenza, Arti grafiche delle Venezie, 1950), con lo pseudonimo Maria Pasini, in occasione del dibattito parlamentare sulla proposta di legge della senatrice Merlin per l’abolizione delle case di tolleranza.

All’ultima sua fatica, pubblicata con il titolo Porrò inimicizia tra te e la donna (Vicenza, Arti grafiche delle Venezie, 1954), affidava la sua lettura in chiave femminista delle Sacre Scritture.

L’Archivio Salerno, per volontà delle nipoti, è conservato presso l’Istituto delle Suore Orsoline di Vicenza ed è custodito presso la biblioteca del “Centro Documentazione e Studi Presenza Donna”. Nel 1997, per il quarantesimo anniversario della morte, il Comune di Vicenza ha intitolato una strada a Elisa Salerno; e nel 2018, per iniziativa dell’associazione “Presenza Donna”, è stata collocata una lapide nella casa all’angolo tra contrada S. Rocco e contrada Busato dove Elisa ha trascorso gli ultimi anni della sua vita.


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