Sgomberi. La triste istoria dei poveri rom sinti e caminanti a Roma

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La storia dei rom e dei sinti (pare che di caminanti a Roma non ne siano arrivati) nella nostra città è fatta di una ininterrotta catena di abusi, soprusi e illegalità. Non compiute dai rom e dai sinti, come la vulgata corrente porterebbe a ritenere, ma di cui essi sono le vittime. Posso attestarlo con dati di fatto tratti dalla esperienza di 9 anni di militanza in Cittadinanza e Minoranze, una minuscola associazione di promozione sociale il cui presidente, Marco Brazzoduro, è fra i maggiori conoscitori italiani delle minoranze linguistiche rom, sinti e caminanti in cui si è imbattuto nel corso dell’attività scientifica svolta come professore di sociologia alla Università romana La Sapienza.

Ecco un caso emblematico.

L’8 febbraio del 2017 alla Famiglia N., composta di 8 persone, viene assegnato il Modulo Abitativo n. 26/B nel “Villaggio attrezzato”, alias “campo nomadi”, di via Candoni 91. Il 16 luglio 2018 a uno dei membri, vedovo con due figli piccolissimi risultato primo nella graduatoria di “nuclei familiari di due o tre persone”, viene assegnata una casa popolare, di una stanza, bagno e cucina. II 14 giugno agli altri membri della famiglia restati nel Modulo 26/B viene notificata l’intimazione di lasciarlo entro 72 ore. Il 2 luglio, funzionari dell’Ufficio Speciale RSC, vigili urbani e agenti della Polizia di Stato, mettono letteralmente in strada i malcapitati, fra cui un vecchio affetto da cancro e diabete altissimo che morirà dopo una quindicina di giorni. Non trovando altra soluzione raccattano legni, teli di plastica e cartoni e costruiscono un “baracchino” senza acqua, luce e gabinetto, ovviamente abusivo, all’interno stesso del campo. Vi si rifugiano. La spiegazione? All’Ufficio Speciale, letta frettolosamente la comunicazione, avevano pensato che tutta la famiglia fosse andata nella casa di una stanza e le avevano revocato l’assegnazione del Modulo 26/B.

Una svista può capitare a chiunque, certo. Consapevoli di ciò, Brazzoduro e io chiediamo di poterla chiarire. Riusciamo a farci ricevere dopo 4 giorni di insistenze. L’11 luglio, muniti di delega degli N., incontriamo due funzionari che non possono che riconoscere l’errore. Caso risolto? Macché! A porre riparo all’errore non sono ancora bastati 2 anni e due mesi. I N. stanno ancora nel “baracchino”. Eppure i N. e noi non siamo rimasti inerti. Da quel giorno è iniziata una via crucis che non è finita ancora. A portare la croce, a titolo di puro volontariato, è stato l’avvocato Giuseppe Siviglia. Le stazioni sono costituite da innumerevoli richieste di incontri, diversi mancati appuntamenti, non poche riunioni con e senza i diretti interessati, intralci burocratici, alcuni “accessi agli atti”, alcune diffide e quant’altro ci si riusciva a inventare fra l’avvicendamento di un direttore e l’altro. Il 20 novembre 2020 la nuova direttora dell’Ufficio firma la Determina Dirigenziale che revoca la revoca delle misure di accoglienza e stabilisce che «l’Ufficio Speciale RSC assegnerà ai componenti del nucleo familiare di… un modulo abitativo nel Campo RSC di Candoni appena se ne libererà uno idoneo».

Ma il calvario dei N. continua: di moduli idonei non ce ne sono. All’incirca un mese fa due Moduli si liberano ma vengono assegnati a due altre famiglie rom, perché, come viene spiegato all’avvocato Siviglia, per ben due volte i N. sono stati cercati al campo ma senza che li si trovasse. Le visite erano state effettuate ovviamente nei regolari orari di ufficio, e si dà il caso che in quelle ore anche i componenti della famiglia N. vadano in giro a procurarsi, con i soliti “lavoretti”, di che sopravvivere. Ci sono dunque gli estremi per una denuncia di omissione di atti di ufficio.

Per come sono andate le cose non si può dire che si tratti soltanto di una svista: a dir poco è l’effetto di un sistematico e generale pressappochismo.

Lo stesso difetto si manifesta anche il 13 dicembre 2017 negli uffici del XV Municipio durante una riunione in cui si tenta (invano) di scongiurare lo sgombero del Campo River. Vi partecipa la consulente scelta dalla sindaca Raggi per supportare l’attuazione del Piano di Indirizzo per l’Inclusione dei RSC approvato dalla Giunta Capitolina il 28 giugno 2017, che, enunciando l’obbiettivo di «promuovere l’autosufficienza economica e l’uscita progressiva dei Rom dai campi», aveva suscitato qualche aspettativa, nonostante alcune inadeguatezze quali la inaccettabile limitazione degli interventi solo a una parte delle 4.187 persone censite nei campi (il 48% delle quali minori) in base a criteri di esclu- sione che denunciano scarsissima conoscenza del mondo rom e delle problematiche dell’inclusione sociale.

La consulente è professionista di indubbio valore, espertissima nel campo del reperimento, impiego e rendicontazione dei Fondi europei ma non altrettanto delle problematiche dell’emigrazione, dei processi di inclusione sociale e del mondo delle minoranze linguistiche. Per sostenere la scelta di non includere nel Piano tutte le famiglie presenti nei campi porta l’esempio di un rom che giorni prima aveva giustificato il ritardo con cui era arrivato in riunione con l’urgenza di inviare soldi ai familiari in patria, per pagare le utenze. Afferma che quella persona avendo una casa nel suo Paese non merita aiuto qui a Roma. Evidentemente ignora che solo qualche decennio prima in Italia centinaia di migliaia di “vedove bianche”, cioè giovani donne rimaste sole insieme ai figli essendosi i propri mariti e compagni recati in Svizzera, Belgio, Francia, Germania, ecc. pagavano fitti e bollette appunto con le rimesse che ricevevano dall’estero. La consulente scambiava per benessere quella che era invece miseria nera. Anche l’esclusione di chi avesse più di 10.000 euro di risparmi mostra che si ignora che quasi sempre i risparmi di un intero clan confluiscono in un unico fondo, senza dire che con somme del genere né si compra una casa, né si paga il fitto per più di pochi mesi. Più che altro sembra un pretesto per ridurre il numero delle persone di cui farsi carico.

Allo stesso obiettivo sembra rispondere la pressante richiesta ai nuclei familiari privi della prospettiva di ottenere una casa popolare di sottoscrivere il “Piano di Responsabilità Solidale” che prevede l’impegno di procurarsi un appartamento il cui fitto sarebbe pagato per i primi due anni dal Comune. Sappiamo tutti che a una famiglia rom nessun privato fitterebbe un appartamento. Per cui il Patto, tanto se lo si firmi senza poi riuscire a fittare una casa, quanto se si rifiuti di sottoscriverlo, si riduce a un mezzo per provare che l’offerta del Comune di un’alternativa a rimanere nel campo non è stata accolta, legittimando lo sgombero.

Il trucco è stato però smascherato dagli abitanti del campo La Barbuta che, in circa una novantina, il 17 Luglio 2020 hanno firmato una lettera alla sindaca Raggi e all’UNAR in cui spiegavano che non potevano firmare il Patto perché, essendo in gran parte privi di documenti e tutte e tutti di una busta paga da esibire, erano nella impossibilità di ottenere una casa in fitto e proponevano una soluzione alternativa che chiedevano di discutere con sindaca e UNAR. Alla lettera non è stata data alcuna risposta. Dopo un anno, il 4 e 5 agosto scorso sono state notificate alle 20 famiglie presenti nei campo le intimazioni di lasciare liberi da persone e cose i container entro il 6 settembre, pena lo sgombero.

Nel frattempo un nostro socio ci aveva messo in contatto con due giovanissimi e valentissimi legali, Giuseppe Libutti e Michele Trotta, che hanno preso a cuore la questione. Entro pochi giorni presentano una diffida al Comune e al Tribunale Civile un ricorso per violazione di diritti costituzionalmente garantiti.

Il 6 settembre al Campo de La Barbuta si presentano i vigili urbani, non per eseguire lo sgombero ma per notificare una nuova ordinanza sindacale che ingiunge di lasciare i container liberi entro altri 7 giorni, sotto minaccia non più di sgombero ma di denuncia di “occupazione abusiva” adducendo una nuova motivazione per la chiusura del campo: la presenza di cumuli di rifiuti anche pericolosi. Come se al campo non fosse l’Ama ad andare a raccogliere i rifiuti e non fosse sua responsabilità se ne avesse lasciati di pericolosi. Intanto il Tribunale Civile ha preso in considerazione il Ricorso e ha convocato i ricorrenti (una famiglia rom e Cittadinanza e Minoranze) e il Comune a comparire innanzi alla XVIII Sezione alle 14,30 del 17 settembre. L’avvocato del Comune ha messo in dubbio la competenza del Tribunale Civile in una materia che a suo avviso rientrerebbe unicamente nella giurisdizione del Tribunale Amministrativo e ha annunciato che, nel caso di sgombero, si terrebbe un “tavolo tecnico” in Prefettura per non lasciare la famiglia ricorrente priva di protezione. Gli si è risposto ribadendo la competenza del Tribunale Civile, prevalendo su ogni altro aspetto la grave violazione di diritti costituzionali, che, da proteggere, non ci sarebbe solo una famiglia bensì 20 per un complesso di circa 100 persone, e che di Tavoli Tecnici non se ne sono visti in occasione di precedenti sgomberi. Compreso l’ultimo del Campo de La Monachina di un mese fa, le cui famiglie sgomberate vagano da allora per strade e anfratti dormendo in auto, furgoni o sotto i ponti (che la novità di un Tavolo in Prefettura sia effetto di due esposti/denunzia presentati al Prefetto?) La Giudice ha ascoltato ambedue le parti con grande attenzione; ha verbalizzato e si è riservata di emanare un sentenza nei prossimi giorni.

Attendiamo con ansia. Non sono in ballo solo le condizioni di vita di 20 famiglie, i diritti di un centinaio di persone e quelli degli/delle abitanti degli altri campi. Ne va pure della qualità della nostra democrazia e di quanto il nostro sia uno Stato di diritto.  membro della Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese.

Nino Lisi è membro della Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 34 del 02/10/2021


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