Natalie Barney e le altre, il lato rimosso del Modernismo. ‘Donne della rive gauche’ di Shari Benstock, Somara!Edizioni

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…in attesa di formare l’insieme al quale sono destinate, le due vicine svolgono un’intensa attività interiore,
che porta entrambe a uno sprigionamento di energie attive, utili alla creazione di pianeti,
esse sono due splendide officine, due fervidi laboratori di stelle, esse irradiano luce.
Mariagrazia Calandrone

 

Non si può definire “destino” quello subito da tutte le intellettuali angloamericane che confluirono a Parigi, nei quartieri della Rive Gauche, dal 1900 al 1940 per sottrarsi alle convenzioni sociali statunitensi e britanniche, convinte a ragione che la “casa del padre” non fosse il posto migliore per scrivere. Aristocratiche o alto-borghesi, spesso facoltose, fondarono riviste e librerie come la storica Shakespeare & Company, aperta da Sylvia Beach nel 1919, che ebbero prima di tutto lo scopo di favorire la diffusione del Modernismo. O diedero vita a salotti intellettuali fra i più frequentati d’Europa, come quello di Natalie Barney in rue Jacob, circondato da un giardino incolto dove Colette passeggiava nuda e dove si celebrava il corpo Androgino, traendo ispirazione dalle forme dei dipinti preraffaelliti.

Sylvia Beach davanti a Shakespeare and Company nella sua prima ubicazione, all’8 di rue de Dupuytren (Sylvia Beach Collection, Princeton University Library)

Erano principalmente scrittrici, e fra le più grandi del Novecento: Djuna Barnes, Gertrude Stein, Anaïs Nin, Jean Rhys, Renée Vivien, Edith Wharton e la stessa Barney. Eppure già in quegli anni ebbe inizio il tentativo, in parte riuscito, di ridimensionare l’importanza della loro azione e delle loro opere all’interno del movimento letterario. Questa rimozione scientifica, evitiamo di usare il termine destino, premeditata e mossa dall’invidia, fu messa in atto proprio dai loro amici (a volte mariti o amanti), ovvero da scrittori come Joyce, Eliot e Pound i cui esperimenti letterari venivano finanziati, pubblicati e promossi da donne come Sylvia Beach.

Djuna Barnes

Rileggendo oggi Nightwood (La foresta della notte, 1936) di Barnes, romanzo teatrale dove si ricrea in vitro il sortilegio elisabettiano della fusione carnale fra concettismo e crudeltà visionaria, viene qualche dubbio che l’Ulysses sia da preferire. In una lettera del 1922 a Gerald Brenan, Virginia Woolf descriveva così il suo difficile rapporto con il romanzo di Joyce: Mi incateno a quel libro come un martire al palo del supplizio ed ora, grazie a Dio, l’ho finito. Il mio supplizio è terminato. Spero di venderlo per quattro sterline e dieci scellini.

Eppure Barnes fu derubricata a caso clinico. La sua genialità, evidente a tutti, subì i colpi di una derisione incessante e velenosa, in particolare da parte di Pound, che si accanì contro di lei dopo esserne stato respinto. Eliot curò la pubblicazione di Nightwood, ma solo dopo averne espunto le parti erotiche.

Ciò che in Nightwood sembra perversione è in realtà la rappresentazione dello straniamento femminile indotto dai codici sociali. Resa incapace di raggiungere l’ombra, ovvero l’Altra e di conseguenza se stessa, se non dentro il riflesso onirico e nella terra di nessuno della Notte, Nora gira a vuoto in un disagio psichico crescente. Disagio che nel precedente Ladies Almanackroman à clef dal tratteggio furiosamente leggiadro, si dissolveva attraverso l’introiezione e trasfigurazione della mitopoiesi generatasi nel salotto di Natalie Barney.

Natalie Barney “L’Amazone” di Romaine Brooks, 1920 (Ville de Paris, Musée du Petit Palais)

Era molto bella Djuna Barnes, oltre a essere un genio letterario, e gli uomini ne erano attratti, ma il suo carattere ustorio e indipendente li spaventava. Inoltre aveva un difetto gravissimo, era lesbica. Lesbica come 13 delle 22 intellettuali intorno alle quali si era coagulata a Parigi una comunità numerosa ed eterogenea. Nei loro salotti si incontravano artisti ed esponenti dell’haut-monde e del demi-monde; la scrittrice, ballerina e cortigiana Liane de Pougy iniziò addirittura una relazione sentimentale con la stessa Barney, raccontata in Idylle saphique del 1901.

Le origini americane e la condotta disinvolta di Natalie Barney impedirono un reale avvicinamento all’alta società parigina, in particolare agli esponenti più in vista della borghesia, spaventati dai due spettri costruiti ad arte in quel periodo: il fantomatico complotto della comunità omosessuale per corrompere i costumi francesi, e quello, ancor più temuto (vedi affaire Dreyfus), riguardante il piano di dominio mondiale degli Ebrei attraverso l’alta finanza, congegnato a tavolino redigendo i falsi protocolli dei savi di Sion.

Tuttavia alcuni aristocratici vinsero alla fine la diffidenza, prima fra tutti la contessa e scrittrice Anna de Noailles, convincendosi a varcare la soglia di rue Jacob. Il salon di Natalie Barney diventò il laboratorio alchemico in cui ricostruire una cultura lesbica accuratamente cancellata nel corso dei secoli – i frammenti di Saffo furono ritrovati solo nell’ultimo decennio dell’Ottocento -, trasformandosi nell’Eden perduto di Mytilene. La sua fama si estese in tutto il continente, vi giungevano baronesse imperiali, canonichesse, cugine di zar, figlie naturali di granduchi, scudiere austriache (Colette, Il puro e l’impuro).

Natalie Barney e Renée Vivien

Anche in Francia come nel resto del mondo le donne erano considerate per lo più elementi sociali decorativi di scarso rilievo, per cui l’omosessualità femminile non poteva che cadere nell’indifferenza e nel vuoto legislativo come fenomeno ‘innocuo, irrilevante, patetico’.

Tuttavia un’ordinanza del 1800, applicata con rigore fra ‘800 e ‘900 dal prefetto di polizia di Parigi Lépine, vietava il travestitismo femminile, poiché con questo abbigliamento le lesbiche invadevano il terreno dell’identità maschile, facendo scivolare un’immagine ignorata o derisa nella categoria del perturbante. Il clima di ambiguità suscitato da cravatte, monocoli e cilindri evocava un odore di zolfo urticante per le delicate cellule olfattive dei Nasi in marsina d’ordinanza che percorrevano le strade della rive droite.

Manifestare in pubblico l’amore per un’altra donna poteva far correre rischi gravi e condurre all’isolamento. Nel 1907 Colette e la sua amante, la Marchesa de Belbeuf, rischiarono di venire arrestate per aver interpretato al Moulin Rouge una scena d’amore lesbico nella pantomima Rêve d’EgypteIl tumulto che si scatenò nel teatro richiese addirittura l’intervento della polizia. Al di fuori degli ambienti intellettuali e dei salotti, anche nella Parigi apparentemente disinibita della Belle Époque, le donne omosessuali continuavano ad essere viste come disadattate o pervertite. Risuonava ovunque l’eco dell’invettiva di Baudelaire contro les âmes désordonnéesl’âpre stérilité de votre jouissance / altère votre soif et roidit votre peau.

Colette

Gli uomini assimilavano il lesbismo a una forma di prostituzione specializzata, pensiero avvalorato da molta letteratura francese dell’Ottocento, da Gautier a Zola. Nei bordelli più ricercati la coppia lesbica rappresentava un’attrazione dal profumo esotico, infinitamente più eccitante dell’oppio o dell’assenzio. Anche il saffismo diventava così una merce dilettevole di cui il voyeurismo maschile poteva nutrirsi. Un arazzo degradato le cui figurazioni non erano che il riflesso del disprezzo e della paura provati dall’uomo.

Natalie Barney ed Eva Palmer

A questa degenerazione patriarcale Natalie Barney oppose un connubio fra etica ed estetica, fra arte e vita, che tendeva a preservare, onorare e innalzare il corpo femminile. Il padre, Albert Barney, era stato la nube nera capace di inghiottirla e da cui era fuggita per l’intera giovinezza, in viaggio, spesso all’estero, insieme alla madre anticonformista o alla sorella oppure alle amiche, a Eva Palmer in particolare, la prima amante, fino a scegliere Parigi come luogo di insediamento e il francese come lingua dell’espressione artistica e amorosa.

Non riuscì ad affrancare Liane de Pougy dalla soggezione al potere del denaro e quindi al desiderio maschile, né a salvare Renée Vivien dalle lacerazioni interiori e dal suicidio, tuttavia creò una comunità ideale, che liberò il lesbismo dall’aura nera di depravazione e malattia per proiettarlo nella luce della classicità pagana, a distanza siderale dalle imposizioni eterosessuali della cristianità.

Una, Lady Troubridge,di Romaine Brooks, 1924(National Museum of American Art,Smithsonian Institution, dono dell’artista)

Più tardi, dopo la prima guerra mondiale, una nuova generazione di donne – Una Troubridge, Radclyffe Hall ecc. – avrebbe rivendicato la libertà quotidiana di assumere comportamenti e indossare indumenti considerati maschili. Romaine Brooks, legata sentimentalmente a Natalie Barney per oltre mezzo secolo, rappresentò questi elementi queer nei suoi dipinti, prediligendo toni freddi e cromie basate su sfumature di grigio e di rosa.

Romaine Brooks, Autoritratto, 1923

Nell’Autoritratto del 1923 Romaine indossa una giacca da equitazione, guanti e un cilindro inclinato sulla fronte a creare un’ombra sulla linea dello sguardo. La bocca è marcata e severa. Può essere letta come un’immagine ‘sulla soglia’, una rappresentazione dell’identità divisa, o meglio sospesa fra due dimensioni opposte eppure coesistenti. Si avverte una frattura interiore, inevitabile e necessaria, ed è proprio l’inquietudine di quella crepa a raggiungerci, oggi, e a diventare il nostro stesso riflesso.

Donne della rive gauche non è solo lo studio coltissimo e appassionante con cui Shari Benstock ha risarcito un gruppo ineguagliabile ed eversivo di intellettuali innovatrici e di donne libere, ma anche un’opera-mondo in cui smarrirsi e ritrovarsi, scritta con l’eleganza, la felicità di ispirazione e la qualità mimetica di un grande romanzo.

 

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Fonte: Scenario


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