Lo struggimento dell’ultima volta. ‘Patria’ di Fernando Aramburu

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Uno sparo come tanti, un attentato dell’ETA come tanti, una notizia come tante, di quelle che fanno tendere le orecchie per pochi minuti, provare uno spasmo di compassione per la vittima e poco dopo abbassare la saracinesca dei pensieri con un’alzata di spalle su un evento che non è il primo e, si dà per scontato, non sarà l’ultimo.

Quello sparo è il fulcro narrativo sul quale Fernando Aramburu, apprezzato scrittore spagnolo, fa ruotare la preziosa partitura di Patria, edito da Guanda e insignito di numerosi premi tra cui lo Strega Europeo 2018, un romanzo straripante e contenuto allo stesso tempo che mette a fuoco la lunga parentesi del terrorismo indipendentista basco e la sua conclusione con uno sguardo assorto e accorato che stringe in un unico abbraccio vittime e carnefici come se fossero parte di una stessa incandescente materia, pedine di un gioco dell’oca che non prevede traguardi da raggiungere ma un continuo avanzare ed indietreggiare sul cartellone geopolitico di uno dei capitoli più sanguinosi e controversi della storia recente. Un unico abbraccio che non ha un sapore risarcitorio o assolutorio, a seconda della parte in causa su cui si concentra l’indagine emotiva, ma che indica una precisa volontà di fusione tra esseri umani che parlano orgogliosamente la stessa lingua e che vivono un unico dolore esacerbato dall’odio, che mostra la strada dell’incontro, del perdono e della reciproca comprensione nonostante le oceaniche distanze che hanno consentito e nutrito una guerra fratricida. Aramburu rifugge dall’uso di facili espedienti atti a suscitare empatie e consensi, ma si limita a registrare in modo asciutto situazioni e stati d’animo, torna più volte, come in una sequenza cinematografica riproposta con variazioni talvolta appena percettibili, su quello sparo e sulle conseguenze devastanti che avrà sulle due famiglie coinvolte: quella del Txato, il piccolo imprenditore restìo a piegarsi del tutto alle sconcertanti ed esose richieste di finanziamento della lotta armata, e quella dell’amico fraterno Joxian, padre del terrorista coinvolto nell’attentato. I mondi, un tempo convergenti e in perfetta armonia, dei protagonisti si allontanano all’improvviso, polverizzati dall’eco insostenibile di quello sparo, dilaniati da ragioni opposte e da polverosi silenzi che pesano sulle coscienze come zavorre senza possibilità di redenzione. Un breve riposo pomeridiano, un caffè riscaldato, un saluto frettoloso, pochi passi e lo sparo. Gesti semplici e quotidiani che si caricano dello struggimento dell’ultima volta: l’ultimo riposo, l’ultimo caffè, l’ultimo saluto, gli ultimi passi e il penoso carico delle parole non dette, degli impegni sospesi, dei progetti non più realizzabili, dei sentimenti pudicamente dominati che dopo vorrebbero urlare a gran voce la propria intensità.

Dopo la bizzarra parentesi de Il trombettista dell’Utopia, romanzo che indaga sulle relazioni familiari – un’ossessione intima per Aramburu –  sulle ambizioni frustrate e sulle opportunità che possono presentarsi all’improvviso come inaspettate alternative di vita, lo scrittore, che da tempo vive in Germania, con Patria esplode come un bengala nel buio della notte raggiungendo vertici artistici di rarissima intensità. Aramburu ha avvertito l’esigenza di esplorare il proprio universo di appartenenza territoriale attraverso una ricerca minuziosa e puntuale di fonti e informazioni con la consapevolezza sempre presente di riaprire crepe dolorose su un terreno tanto arido quanto friabile e ferite mai sanate in chi quel periodo ha vissuto con costante sconcerto o con fiduciose attese di riscatto. E vi ha innestato, senza nasconderlo, tantissime occasioni di riflessioni universali che il lettore, grato, non può non cogliere ed apprezzare.

La narrazione si snoda in capitoletti che avanzano nel tempo per poi tornare indietro in flashback per lo più germogliati da associazioni emozionali, flashback che ripropongono spesso gli stessi fatti ma offerti da differenti punti di vista per coglierne  il diverso riverbero nelle coscienze dei personaggi. Intrigante ed efficacissimo risulta il linguaggio semplice e pulito – paratattico o più articolato in ritmi sempre diversi, quasi una sinfonia – che passa dalla prima alla terza persona nello stesso breve capitolo, anzi, attraverso uno stupefacente miracolo sintattico, nello stesso periodo e il lettore avverte come una piccola intrusione del personaggio che reclama la possibilità di esprimersi senza l’intermediazione del narratore esterno, di testimoniare piuttosto che delegare ad altri il racconto delle proprie percezioni, di ricostruire attraverso la  propria personalissima ottica le angosce senza fine del lutto e della colpa, di ripercorrere instancabilmente gli attimi che hanno determinato lo stravolgimento di tante vite.

Anzitutto quelle di Bittori, la vedova, e di Miren, la madre del terrorista, entrambe figure indimenticabili di gigantesca statura: la prima impegnata in una caparbia ricerca di verità irta di insidie sentimentali, la seconda incaponita in un amore materno viscerale che non sente ragioni e che non si piega neanche all’evidenza della violenza; la prima, tentata in gioventù dalla religione e dalla vita monastica, se ne allontana, perché non può esistere un Dio che consenta il Male o che lo contempli con indifferenza, la seconda nutre i suoi deliri di una spiritualità che sconfina nella superstizione, dialoga con i santi e con un anziano sacerdote in grado di individuare giustificazioni al sangue versato nella lotta. Tutti comunque saranno risucchiati da quello sparo – i figli della vittima e i fratelli del terrorista – tutti condizionati irrimediabilmente da quell’attimo che imprimerà una sterzata brusca e decisiva a percorsi apparentemente piani e senza ostacoli. Xabier, oppresso da un senso di responsabilità che gli impone la cura premurosa per la madre vedova, diverrà uno scialbo medico votato al lavoro, con una relazione amorosa che non saprà mantenere e la tendenza a trovare conforto nell’alcol senza però divenire alcolizzato; la sorella Nerea, coccolata e molto amata dal defunto padre, non presenzierà nemmeno al suo funerale, stritolata tra il desiderio di mantenere intatta nella memoria la solare immagine paterna e il timore delle conseguenze che potrebbe avere il suo essere figlia di una “vittima del terrorismo” sui nuovi amici di Saragozza. E poi ci sono gli altri, gli ex vicini di casa, gli ex compagni di gioco: Arantxa, che assisterà impotente alla dissoluzione della sua straordinaria bellezza dopo un ictus paralizzante, l’unica in grado, nonostante la malattia, di tessere incessanti trame di riconciliazioni, e Gorka, l’introverso fratello minore che farà della scrittura in lingua basca la sua personale forma di affezione alle radici e che riuscirà lentamente a rivelare alla tradizionalissima famiglia la propria relazione omosessuale. Ognuno insomma reagirà a modo proprio, con la rimozione, il silenzio, il vitalismo, l’ostinazione, la rinuncia, la fuga, ognuno cercherà risposte analgesiche senza necessariamente avere la fortuna di trovarle.

Impossibile resistere alla tentazione di restituire per  immagini  personaggi così vivi e storie così travolgenti, per cui è sembrato del tutto naturale trasformare le pagine  in una serie tv, disponibile (in spagnolo) in streaming in otto episodi che presto potrebbero approdare anche in Italia.

Bisognerebbe dimenticare la Patria, se essa significa odio e violenza, e ricordare di appartenere al Mondo. O forse basterebbe guardarla da lontano e con occhi nuovi, cercare di comprenderla senza giudicare, leggerne le contraddizioni senza lasciarsene travolgere, amarla senza comode indulgenze. Bisognerebbe avere la capacità di accettare un evidente dato di fatto: oggi la Patria non può più essere quel romantico concetto ottocentesco che ha fatto insorgere popoli e sventolare bandiere, oggi la Patria dovrebbe coincidere con lo Stato al quale sentiamo di appartenere, con la casa interiore da portare sulle spalle come le chiocciole, con il luogo dello spirito più che con quello del corpo. Senza dimenticare la propria lingua (o meglio ancora il proprio dialetto), gli autori che hanno cementato un comune sentire, la musica che ha accompagnato fantasie bambine e pensieri adulti, i paesaggi che continueranno a popolare i ricordi, il languore del nostos che rende l’uomo una splendida, fragile creatura.

 

Fernando Aramburu

Patria

Guanda Editore, 2017

€ 19,00


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