Libia, non c’è pace fra gli ulivi

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Centodieci anni fa scoppiava la guerra di Libia. Al termine di peraltro brevi schermaglie diplomatiche che l’Italia di Giolitti aveva condotto senza molta convinzione, il 26 settembre 1911 l’incaricato d’affari italiano a Costantinopoli, come allora si chiamava Istanbul, presentava al governo turco un ultimatum che se non fosse stato accettato avrebbe comportato un’azione militare italiana contro la Tripolitania e la Cirenaica, le due regioni che costituiscono l’odierna Libia e che all’epoca erano province dell’impero ottomano. La Libia come la intendiamo oggi nacque al momento della conquista italiana e divenne un’unità amministrativa quando il regime fascista unificò i governatorati di Tripoli e Bengasi. Il conflitto italo-turco aprì dunque l’Italia all’era coloniale che sarebbe durata fino alla seconda guerra mondiale, l’ambita “Quarta sponda” tanto decantata dal fascismo.

In poco più di cento anni i rapporti fra l’Italia e la Libia hanno subìto radicali cambiamenti. Prima terra di conquista a suon di cannonate, quindi l’occupazione militare e subito dopo l’emigrazione di coloni, soprattutto dal nord d’Italia, e la nascita dell’impero fascista. Poi la guerra con gli inglesi, che se ne appropriarono e prima di uscirne favorirono la nascita di una monarchia, esattamente sessanta anni fa, nel 1961, mettendo sul trono il re Idris, e lo fecero soprattutto per contrastare ogni velleità di possesso da parte dell’Italia. Seguì la rivolta araba che cacciò il re e portò al potere il colonnello Gheddafi, nemico giurato degli italiani che non esitò a cacciare nel 1970, prima di essere a sua volta eliminato nel 2011, esattamente dieci anni fa, ucciso come tanti dittatori, dai fanatici di una fazione ostile.

E siamo ai giorni nostri, con il presidente del consiglio Mario Draghi che vola a Tripoli per incontrare uno dei due presidenti che si contendono il potere, l’uno in Tripolitania l’altro in Cirenaica, in realtà due militari che comandano appoggiati da milizie armate ovviamente contrarie a qualunque ipotesi di pace. Tutto questo perché in Libia è stato scoperto il petrolio che fa gola a tutti: prima fra tutti la Turchia, il cui “dittatore” Erdogan, (copyright di Mario Draghi) sta sognando la riconquista delle sue antiche province nel ricordo dell’impero ottomano di cui si sente legittimo erede, e la Russia di Putin che in Libia ha mandato armi e soldati ufficialmente per riportare la pace: del resto, lo dicevano i latini: “si vis pacem, para bellum” e nell’Unione Sovietica li avevano presi sul serio, battezzando proprio “parabellum” un micidiale fucile mitragliatore progenitore del famigerato kalashnikov. Come si vede, siamo tornati al 1911, allo scoppio della guerra italo-turca. Delle due l’una: o la storia non insegna o i governi e gli stati sono pessimi scolari che non imparano.

In un documentatissimo libro uscito qualche anno fa, La quarta sponda, Sergio Romano, noto giornalista, poi ambasciatore e di nuovo giornalista, oggi storico e collaboratore del Corriere della sera, ha ricostruito la guerra di Libia, ovvero il conflitto italo-turo del 1911, raccontandone i presupposti con un’attenta analisi delle ragioni politiche che portarono l’Italia di Giolitti a imbarcarsi in una impresa bellica di molto dubbio significato e ancor più incerto risultato.

A ripercorrere gli eventi storici che hanno preceduto lo scoppio delle ostilità c’è da rimanere sorpresi dalla mancanza di informazione se non proprio dall’ignoranza in cui agirono uomini politici di parti avverse, commentatori, giornalisti, militari. Quando si cominciò a parlare dell’opportunità di impadronirsi di Tripoli e Bengasi perché strategici centri del governo turco in nord Africa, ci fu chi fece notare che contrariamente a quanto sostenuto dagli interventisti non era vero che la Libia fosse ricca e in grado di assorbire la disoccupazione italiana e quindi un obiettivo dell’imperialismo economico italiano Questo veniva sostenuto in riposta a chi diceva che se avesse conquistato la Libia, l’Italia avrebbe potuto fermare la massiccia emigrazione dalle nostre regioni più povere verso i miraggi oltre Atlantico. E che se non l’avesse occupata l’Italia, la Libia sarebbe stata ben presto facile preda dell’espansionismo di altre nazioni: del resto la Francia s’era presa prima l’Algeria, poi la Tunisia infine il Marocco, gli inglesi si erano attestati in Egitto, insomma l’intera costa settentrionale del Mediterraneo (una volta “Mare nostrum”) era passato sotto la dominazione di potenze europee. E l’Italia era rimasta a bocca asciutta. Contrari alla guerra si dichiararono i socialisti che a pochi giorni dall’occupazione invitò gli iscritti allo sciopero generale. A Forlì il giovane militante Benito Mussolini, anni 28, parlò per un’ora sostenendo che la Libia è povera, l’impresa si tradurrà in uno spreco di capitali che potrebbero essere utilizzati meglio in Italia.

Erano anni, il primo decennio del Novecento, nei quali i giornali avevano molto credito. Su La stampa, un autorevole inviato scriveva della Libia come di un paese virtualmente ricco avendo egli visto con i suoi occhi “olivi folti, cupi non potati, selvosi carichi di olive! Viti atterrate dal peso dei grappoli. Altro che deserto. Siamo in terra promessa”. Gli rispose Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica, allora fiero polemista, che quel giornalista “aveva scambiato piante di ginepro selvatico per ulivi”. Lo scrisse a chiare lettere e per questo fu fatto oggetto di violentissimi attacchi. Non andò meglio a Gaetano Salvemini quando obbiettò “La Libia è uno scatolone di sabbia”, oltre tutto di un tipo di sabbia buona neanche per fare il vetro. All’epoca nessuno ebbe da obiettare, ma Salvemini aveva torto: tant’è vero che sotto quella sabbia lo scatolone era ricco di petrolio, lo avevano annusato per primi gli italiani, poi la guerra li spazzò via e furono gli inglesi e successivamente gli americani della Esso a fare sondaggi e a scavare pozzi e a trovare il petrolio da vendere a tutti, anche all’Italia. Solo in anni successivi la nostra Eni sarà attiva in Libia: per questo la visita del presidente Draghi non ha avuto solo scopi di pace e di soluzione del problema dei migranti ma anche di tutela delle nostre industrie tuttora presenti.

La presenza commerciale e imprenditoriale italiana in Libia vanta un passato più apprezzabile di quanto si possa dire dell’intervento militare e politico. Con l’arrivo di migliaia di coloni sono stati costruiti villaggi, scuole, ospedali, strade, stabilimenti, fattorie, aziende agricole. Tutto finito di colpo con la cacciata degli italiani decisa da Gheddafi nel 1970. Di questi nostri rimpatriati non si ricorda più nessuno: solo qualche nipote testardo si ostina a chiedere al governo italiano la piena applicazione della legge che da allora anni riconosce il diritto ad un rimborso parzialissimo dei beni perduti per sempre. Vae victis “Guai ai vinti” dicevano i latini: vale ancora.

Gheddafi ha pagato con la vita il suo scellerato modo di governare, da despota. Oggi l’ombra di un altro prepotente si sta allungando su Tripolitania e Cirenaica, le antiche province dell’impero ottomano. E un altro moderno “zar” sembra interessarsi allo “scatolone”. E l’Italia resta a guardare. Del resto, come dice il titolo di un film neorealista del 1950, Non c’è pace fra gli ulivi, quelli veri, non il ginepro selvatico.


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