Un reato immaginario. ‘Il caso Braibanti’ di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese

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Che il codice penale fascista, approvato nel 1930, sia sostanzialmente ancora in vigore è una delle peculiarità di un paese – mi ripugna specificare “il nostro” – ancora molto lontano dal concetto di civiltà occidentale e pericolosamente tentato da nuove derive reazionarie. Il reato di plagio, in particolare, fu istituito dall’art. 603 del Codice ‘Rocco’, il guardasigilli di Mussolini, e meglio definito nel 1961 dalla Corte di Cassazione come l’instaurazione di un rapporto psichico di assoluta soggezione del soggetto passivo al soggetto attivo. Questo crimine immaginario che avrebbe potuto condurre con estrema facilità a sanzionare dei comportamenti leciti, tutelati dai principi fondamentali della Costituzione, si prestava a favorire persecuzioni individuali di natura moralistica da parte di una complessa e opaca struttura sociale, giudiziaria e mediatica. L’articolo in questione venne tardivamente giudicato illegittimo dalla Corte Costituzionale nel 1981 e cancellato.

Nell’intervallo temporale fra il 1930 e il 1981 l’unica persona condannata a 9 anni di reclusione in seguito a un’accusa di plagio fu l’intellettuale Aldo Braibanti. La storia – l’ennesimo episodio infame e rimosso capitato in una nazione dove il cadavere lunghissimo del fascismo continua ad ammorbare l’aria nutrendosi quel conformismo di fondo, denunciato da Moravia, che contamina ogni ceto sociale e ogni schieramento politico – è ripercorsa con sommessa indignazione dal documentario Il caso Braibanti di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, vincitore di un premio ai Nastri d’Argento e visibile su MyMovies nell’ambito del festival di cinema lgbtq ‘Taglio lungo’. Nella ricostruzione della vicenda i ricordi commossi e ancora oggi costernati di Dacia Maraini, Piergiorgio Bellocchio, Maria Monti, Lou Castel, Ferruccio Braibanti (nipote di Aldo) si alternano a rare interviste, alle requisitorie volgari del pubblico ministero Loiacono, a immagini di repertorio, fotografie, prime pagine dei quotidiani, registrazioni di Radio Radicale, scene dello spettacolo teatrale del 2018, citazioni degli intellettuali che si schierarono a difesa di Aldo: Pasolini, Moravia, Morante.

Partigiano, sottoposto a torture brutali dai fascisti, prima comunista e in seguito anarchico, fondò nel 1947 un importante laboratorio artistico nel torrione Farnese di Castell’Arquato. Amico di Marco Bellocchio e Sylvano Bussotti, maestro di Carmelo Bene cui insegnò l’arte di recitare in versi, si può considerare il vero creatore dell’avanguardia teatrale italiana. Nel 1968 fu denunciato per plagio dalla famiglia del suo giovane compagno Giovanni Sanfratello, legata a potenti figure del clero e agli ambienti della destra estrema. Mentre il desiderio di libertà si faceva sentire prepotentemente fra i giovani, nelle curie e nei salotti misoneisti si cercavano casi esemplari che potessero ostacolare il processo di modernizzazione in corso. Aldo Braibanti diventò l’agognata strega da mettere al rogo, con la complicità silenziosa della sinistra istituzionale. E con lui il ventunenne Giovanni, internato in manicomio dai parenti e sottoposto a 40 elettroshock e 19 trattamenti di coma insulinico. L’amore omosessuale non era contemplato in quell’aula giudiziaria, si trattava soltanto dell’influenza demoniaca di un intellettuale pervertito. Un plagio, appunto.

Il vitalizio assegnatogli nel 2006 in base alla legge Bacchelli non evitò al filosofo lo sfratto dalla casa di via del Portico d’Ottavia a Roma.

Aldo muore in stato di indigenza il 6 aprile 2014 a Castell’Arquato, per arresto cardiaco.

Questo articolo è apparso originariamente sul quotidiano di spettacolo e culture Scenario http://www.inscenaonlineteam.net/


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