La dignità del lavoro ci riguarda. Sempre

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Difendere la dignità e i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici deve essere un obiettivo prioritario per dare una prospettiva al Paese, in questo Primo Maggio 2021 come mai prima. C’è chi pensa che la via d’uscita da questa crisi sociale ed economica (e sanitaria, ancora, non lo dimentichiamo) passi dal licenziare, sfruttare o sottopagare chi lavora. La centralità del lavoro è la chiave per ricostruire su basi nuove il nostro Paese ed affrontare con equità e solidarietà le gravi conseguenze economiche e sociali della pandemia.  Se chi Governa ha in mente di rilanciare complessivamente il Paese con il volano degli investimenti pubblici e un “debito buono” per le future generazioni allora deve incentrare le politiche di rilancio sulla “buona occupazione”. Un lavoro che tolga di mezzo strumenti di sfruttamento legalizzato come, per l’editoria, gli infiniti e caduchi contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Chi lavora otto, dieci, dodici ore al giorno deve potersi mantenere con dignità, al di là del lavoro che svolge. Sia un ufficio stampa, un cronista precario, un cameriere o un “lavoratore somministrato” che fa il facchino per Amazon. Il problema di dignità del lavoro riguarda tutti e tutte.  La mia generazione è cresciuta con un mantra inoculato in tutti gli ambiti lavorativi: “competitività”. “Bisogna essere competitivi. Più competitivi”. Perché questo – si diceva – è il problema del sistema produttivo italiano: troppe regole, lacci e lacciuoli imbrigliano le imprese e creano problemi di competitività (rieccoci) sul mercato globale, il vero “campo di battaglia” in cui vedercela con gli altri. E qui, appunto, “gli altri sono più flessibili” e per questo “più competitivi”. L’attacco alla dignità e ai diritti del lavoro parte da questo orizzonte politico e culturale, turbocapitalista e insostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. E parte da lontano. Quindi senza capire da dove veniamo non potremo costruire un’alternativa a un mondo del lavoro sempre più precario e smaterializzato, in cui tutele e diritti sono decrescenti ovunque. Quella che potremo chiamare una sorta di “ricerca della competitività all’italiana” è stata rilanciata dagli anni Duemila con le riforme Treu ed è passata dal Jobs Act del 2015. E oggi, ironia della sorte, ci troviamo un tessuto deindustrializzato dalla globalizzazione con lavoratori sempre più precari da un lato, e anziani dall’altro. Ne è un esempio l’editoria. Infatti quando si parla di precarietà, dignità del lavoro, diritti calpestati e Governo inadempiente un ottimo esempio lo dà il settore dell’informazione. Qui tre attivi su quattro non hanno un contratto di lavoro stabile. Qui si attende l’Equo compenso dal 2012. Qui troviamo ancora quel mostro giuridico dei cococo che rappresenta uno strumento di sfruttamento legalizzato. Qui troviamo macerie dopo lo tsunami della crisi economica e sanitaria con oltre 300 milioni di euro spesi per accompagnare alla porta (prepensionamenti) giornalisti senza un turnover adeguato. A dirlo sono i dati. “La distribuzione dei giornalisti attivi in Italia per fasce di età mostra un graduale e costante invecchiamento della forza lavoro: circa il 12% della popolazione attiva ha più di 60 anni, mentre tale quota era pari solo al 2% nel 2000, anno in cui più della metà dei giornalisti (53%) aveva meno di 40 anni, quota che ad oggi è scesa a meno di un terzo (30%). In sostanza, in poco più di tre lustri, il giornalismo italiano è passato dall’essere una professione sostanzialmente giovane, in cui oltre la metà dei giornalisti aveva meno di quarant’anni, a un’attività svolta da personale più maturo“ (Osservatorio Agcom sul giornalismo 2021).

La questione riguarda la coesione sociale e il ruolo della stampa. La credibilità del Paese passa dalla regolarità dei rapporti di lavoro di chi dovrebbe creare una opinione pubblica consapevole. Allora quando leggeremo un’inchiesta sui giornalisti precari a vita? Su chi vede tagliare i compensi in modo unilaterale da parte degli editori, su chi deve scrivere anche durante la chemioterapia perché se no a casa non si pagano le bollette, o su chi deve rinunciare a farsi una famiglia per l’incertezza lavorativa che perdura da 12 anni? Donne, uomini, giornalisti e comunicatori, uffici stampa che non cercano un posto al sole. Cercano dignità in un lavoro che si perde nei cococo 3 euro a servizio. E sono migliaia. A loro, l’augurio di un ultimo Primo Maggio ai margini. A loro, a noi, l’augurio di un 2021 al centro del dibattito. Accendiamo i riflettori su equo compenso e precarietà. I riders dell’informazione sono stanchi. E vogliono risposte.


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