#staizittagiornalista Silvia Garambois parla del libro denuncia. Oggi dibattito con il Sindacato dei Giornalisti del Veneto

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Un Otto Marzo in cui il Veneto è  in zona arancione per la recrudescenza del virus, c’era poco da festeggiare. Ma il valore simbolico e reale di questa data resta intatto: di più in un contesto sociale stremato dalla pandemia da Covid nel quale, come confermato da analisi e studi, a pagare il conto più salato sono le donne. Dalla perdita del posto di lavoro, all’acuirsi dello svantaggio salariale rispetto ai maschi, alla penalizzazione che smart working e didattica a distanza ha riverberato nella quotidianità al femminile con l’esplosione dei tempi di cura che sempre meno si conciliano con i tempi di lavoro, nell’insufficienza se non nell’assenza di concreti strumenti di sostegno. Le giornaliste non fanno eccezione. Single, mamme, mogli, figlie. La redazione, nonostante siano aumentati in maniera esponenziale gli ingressi di giornaliste, rimane un mondo plasmato al maschile specie nella gerarchia dell’organizzazione del lavoro: e il ricorso massiccio della “rad” ovvero della redazione a distanza per tutelare giustamente la salute, rischia nel lungo termine di avere effetti molto più deleteri in termini di crescita professionale e di carriera proprio per le giornaliste.

Giornaliste che sono più esposte dei colleghi agli odiatori seriali come evidenzia il libro inchiesta scritto da Silvia Garambois, presidente di Giulia Giornaliste, e Paola Rizzi dal titolo #staizitta giornalista! Dall’hate speech allo zoombombing, quando le parole imbavagliano.

Ed è su questo aspetto che il Sindacato giornalisti Veneto invita a porre l’accento per un 8 marzo di consapevolezza e testimonianza e di condivisione, invitando Garambois in avvio dei lavori del direttivo regionale on line in calendario domani 9 marzo, a partire dalle 10, insieme al presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti.

«Mancano gli anticorpi. Per contrastare il linguaggio d’odio che colpisce tutti ma in particolare le donne in ogni professione compresa quella giornalistica. Occorre lavorare sodo per costruirli, questi anticorpi, all’interno della nostra categoria e anche fuori. Senza consapevolezza, senza strumenti, senza un’azione corale – afferma Garambois – questo fenomeno è destinato a incancrenirsi e a passare da problema sociologico a problema politico a problema di sicurezza». E la Rete questo fenomeno lo ha amplificato complice certo il lockdown ma anche quella zona grigia di impunità dove la responsabilità individuale si affievolisce nel branco e nell’anonimato.

Perché il titolo #staizitta giornalista! declinato volutamente al femminile?

«Ci siamo avvalse del contributo di Vox-osservatorio sui diritti (a cui partecipano le Università Statale e Cattolica di Milano, la Sapienza di Roma e l’Università Aldo Moro di Bari) e sulla base delle rilevazioni effettuate dai nostri osservatori scientifici nella ricerca condotta che non a 360 gradi senza distinzione di genere, è emerso che il linguaggio d’odio che si scatena contro le giornaliste è molto più feroce, violento, sessista, aggressivo. E questo vale anche nelle altre professioni. Non a caso la collaborazione con Vox diritti continua. Il libro non è punto d’arrivo, semmai di partenza. Stiamo lavorando per allargare il panel dalle giornaliste alle politiche, alle magistrate, alle avvocate, alle donne dello spettacolo».

Gli episodi di attacchi virulenti alle giornaliste stanno subendo un incremento preoccupante e non importa se si tratta di una firma prestigiosa e quindi famosa. Tocca tutte. Anche le corrispondenti di “periferia”. È il caso di Silvia Bergamin, che per il Mattino di Padova collabora da Cittadella, bersaglio di una inaccettabile gogna social per aver scritto dell’arresto di un trentenne sorpreso con due etti di stupefacente, notizia diffusa dai carabinieri. La solidarietà è sufficiente? La scorta mediatica inaugurata dalla Fnsi a tutela di tutti i giornalisti minacciati e intimiditi è efficace?

«Sono azioni importanti perché le colleghe e i colleghi non si sentono soli. E si sa quanto l’isolamento possa nuocere in tali frangenti. Con #staizitta giornalista! abbiamo cercato di dare un supporto scientifico alle nostre posizioni. Quando ci sono donne impegnate in lavori che nell’immaginario collettivo sono coniugati ancora al maschile, è la professione giornalistica è fra questi anche se le donne nelle redazioni sono i 2/3, scatta l’odio, soprattutto da parte degli uomini: odiatori singoli ma anche gruppi, frotte, manovrati dalla Bestia. Mi spiego meglio: quando sotto attacco è il pezzo di un collega maschio, spesso l’odio converge su una figura femminile, che sia l’oggetto dell’articolo o, come nel caso de Il Giornale di Brescia, che sua la direttrice, l’unica donna in Italia alla guida di un quotidiano».

Che spiegazione vi siete date ammesso che una spiegazione sia possibile?

«C’è un problema culturale che coinvolge donne e uomini allo stesso modo. Non dimentichiamoci da dove veniamo: negli anni ’70 la conquista dei diritti civili galoppava, ma ricordiamo che fino al 1981 è rimasto in vigore il ‘delitto d’onore’ del Codice Rocco e solo nel 1996 lo stupro è diventato reato contro la persona e non più contro la morale pubblica . E qui ci sarebbe da fare anche un ragionamento articolato sulla piaga dei femminicidi e sulla loro narrazione».

Garambois ha partecipato anche alla stesura del Manifesto di Venezia – sottoscritto da un migliaio fra giornaliste e giornalisti – per cambiare il linguaggio e liberarlo dalla violenza con particolare attenzione proprio alla narrazione dei femminicidi e al linguaggio di genere. A breve sempre in Veneto, da Padova, partirà il primo corso universitario di alta formazione frutto dell’alleanza fra i mondi dell’università e della ricerca e quello dell’informazione con la Fnsi, Sgv, Articolo 21 e il supporto dell’Ordine regionale dei giornalisti e del Sindacato del Trentino Alto Adige: “Raccontare la verità – Come informare promuovendo una società inclusiva” e combattere le fakenews. È utile investire in tal senso?

«Assolutamente sì. Il nostro compito di giornalisti non è certo educare, né insegnare: noi dobbiamo raccontare. Però dobbiamo farlo nel modo giusto. A partire dal declinare le professioni al femminile, quando la grammatica italiana lo consente: avvocata, ministra, direttrice. E se uno uccide una donna, è un assassino, non la vittima di un raptus. Quanti titoli e narrazioni leggiamo che non rispettano la dignità della persona. Per non leggerne più la strada è proprio quella di una narrazione corretta e rispettosa».

In #staizitta giornalista! vengono riportate le testimonianze in prima persone di sette colleghe finite nel mirino degli odiatori: che quadro è emerso?

«In loro abbiamo trovato una rappresentazione delle diverse tipologie di odio: chi è stata attaccata perché il politico le ha messe all’indice (Grillo e Salvini sono tra gli habituée), chi da una delle curve calcistiche più potenti e pericolose d’Italia. Io le ringrazio sempre per aver accettato di condividere la loro esperienza, perché essere oggetto di attacchi del genere è pesantissimo e riviverli è come ricaderci dentro di nuovo. Questo lavoro ha fatto emergere un aspetto che è stato troppo a lungo sottovalutato e che ha una vasta diffusione, stando proprio ai dati emersi. Mi ha molto colpito, infatti, che Daria Bignardi su Vanity Fair, parlando del nostro volume, abbia ricordato quando fu lei a essere presa di mira quando si era fatta fotografare senza capelli, durante la chemioterapia. Il nostro mestiere è informare, non scavalcare ostacoli o essere protagoniste nostro malgrado, se non per il nostro lavoro. È chiaro che ognuno per sé non si va da nessuna parte».

Fra gli obiettivi dell’odio in Rete c’è pure quello di ridurre al silenzio chi viene bombardato dai messaggi denigratori, minacciosi, offensivi, intimidatori. E c’è chi sceglie di “scomparire” dalle piattaforme virtuali come ha fatto la direttrice del Giornale di Brescia, Nunzia Vallini – intervistata , #Staizittagiornalista! – che ha deciso di “ritirare” il quotidiano dai social. Una scelta condivisibile?

«Secondo me no. Il danno non è solo professionale – non essere sui social penalizza la testata – ma anche a livello personale e informativo. Per un giornalista non essere sui social significa dover rinunciare a una vasta fetta di lettori non raggiungibili con i mezzi tradizionali, i quali possono essere aggiornati anche in tempo reale. Non essere sui social, lo ripeto, è una limitazione professionale. Ma la paura che abbiamo riscontrato intervistando le colleghe non è virtuale, è reale. Come reali sono le minacce, dallo stupro al “so dove abiti”. Tuttavia la questione de Il Giornale di Brescia è assolutamente indicativa. Vallini aveva già assunto un paio di persone con il ruolo di moderatori dei social ma, nonostante questa misura, ma in occasione dell’arrivo del presidente della Repubblica Mattarella a Brescia per commemorare le vittime del Covid nel giorno dei Defunti, l’odio in Rete si è scatenato con una tela virulenza da abbattere persino gli argini eretti dai moderatori. Ma scegliendo di “oscurare” la presenza del quotidiano per non fornire un’arena agli odiatori può essere interpretato come una resa».

Alcuni giorni fa Raffaele Palumbo, direttore di Controradio si è dimesso dopo la bufera seguita alle offese sessiste e volgari pronunciate da un suo ospite nei confronti di Giorgia Meloni, segretaria di Fratelli d’Italia. Ha fatto bene?

«L’episodio di Controradio è stato orrendo, ma io me la prendo con la Rai, realtà di ben altro rilievo nonché pubblica, ad esempio quando Peter Freeman ha definito Melania Trump una “escort” e la collega in trasmissione ridacchiava invece di intervenire . Lo ripeto mancano gli anticorpi: questo è il problema. Non deve succedere. Punto. Io ho apprezzato molto il passo indietro di Palumbo, perché evidentemente nella sua radio, in quell’occasione, sono mancati gli anticorpi per reagire alle dichiarazioni dell’ospite; anche lì sono andati a risolini. Ecco, la cosa che io ritengo importante sono le scuse. È un gesto forte. Ho apprezzato le scuse del rettore dell’Università di Bari dopo le dichiarazioni sessiste di uno dei suoi professori, come quelle dei direttori de Il Mattino e de Il Sole 24 ore, dopo titoli a dir poco discutibili. Le scuse rappresentano un cambio di narrazione, è un doppio passaggio: ho sbagliato, lo riconosco e lo dico pubblicamente, affinché i miei lettori/ascoltatori capiscano che così non bisogna fare».

(a cura di SGV  – redazione)


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