La paura dell’Inquisitore. ‘Il sabba’ di Pablo Agüero, dall’11 marzo su Netflix

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Cinema è quel sortilegio che ti porta via dall’immanente per condurti nella realtà nascosta dietro le cose, le solite cose, le solite parole logore e sterili. Solo quando arrivano i titoli di coda ti accorgi con un sussulto del tempo che è trascorso. Rovistando fra le cianfrusaglie filmiche del catalogo Netflix capita ogni tanto di imbattersi in una novità intrigante cui non si può che abbandonarsi.

Il sabba, per esempio, titolo italiano del film Akelarre del regista Pablo Agüero, è uscito nel 2020 e ai Goya di quest’anno ha ricevuto diverse nomination e premi.

Nel ‘600, in un villaggio di pescatori sperduto nella provincia basca, giunge con il suo seguito un Inquisitore determinato a scoprire i segreti del sabba – il concilio dove le streghe eseguono innominabili riti innalzando inni blasfemi al signore delle mosche. L’indagine prende la forma di una procedura arbitraria che si traduce nell’imprigionare, torturare e ardere vive donne “colpevoli” di comportamenti non ritenuti conformi alla cattolicissima morale di sottomissione e incessante contrizione. Persecuzione scatenata dal solo peccato di essere nate e l’aggravante di essere giovani e belle.

Mentre gli uomini del villaggio sono fuori in mare, un gruppo di ragazze viene arrestato con l’accusa di stregoneria, dopo essere state viste ballare nel bosco. Di fronte alla sentenza prevedibile dell’Inquisitore, Ana (Amaia Aberasturi) capisce che l’unica speranza è quella di prendere tempo fino al ritorno dei pescatori; escogita quindi un piano con le altre ragazze per trasformarsi in novelle Sherazade e tenere sotto scacco l’aguzzino con le loro storie.

Da qui in poi la scelta è vostra se continuare la lettura o programmare la visione del film e staccare gli occhi da questa pagina per evitare rivelazioni sulla trama.

L’ottusità dell’Inquisitore (Alexander Brendemühl) è incarnazione stessa del potere e del pensiero dominante, di cui la chiesa cattolica è da secoli gerente, cane da guardia della sottomissione al potere, in cui un dio barbuto ha un figlio maschio e la figura femminile di rappresentanza non può altro che chinare il capo di fronte all’arcangelo Gabriele. Alle ragazze non viene concesso di guardare negli occhi gli uomini per paura che possano lanciare un sortilegio, il sortilegio da sempre presente negli sguardi fra un uomo e una donna. Ana, non avendo dalla sua il potere temporale e neppure ovviamente il favolesco potere delle Brujas (le streghe) dovrà fare appello proprio al suo potere di donna per ammaliare il giudice. Proprio l’attrazione morbosa che il giudice prova per Ana è l’incantesimo che supera la soglia virtuale dello schermo e raggiunge gli spettatori. Nella scena in cui l’inquisitore chiede di riprodurre le varie fasi del sabba partendo dall’unzione della giovane, è palese il motivo per cui Mikel Serrano abbia vinto il Goya come miglior scenografo: qualsiasi ammiratore delle forme femminili non può rimanere indifferente alla scena e  il bravissimo Alexander Brendemül rende alla perfezione la brama mista a curiosità per l’ignoto e la semplice lussuria, cercando di mostrarsi superiore in una condizione in cui in realtà è in svantaggio. Il corpo nudo di una ragazza demolisce secoli di dottrina e autoflagellazione e quindi l’Inquisitore stesso si trova in svantaggio, trovandosi non più di fronte a un pezzo di carne da ardere ma all’oggetto primo della brama ancestrale del retaggio maschile. In queste immagini si manifesta con chiarezza cosa l’uomo teme più nel rapporto con la donna: il sentirsi disarmato nei confronti del proprio desiderio. Il desiderio non appagato porta alla ferocia e alla repressione: Ana e le sue amiche ballavano e cantavano spensieratamente nel bosco, ma nella mente del potere la loro libertà è intollerabile, devono subire la più atroce delle sorti proprio per espiare la colpa di essere felici e non castrate come invece appaiono gli uomini descritti in questa vicenda. L’inquisitore Rostegui è diviso fra il senso del dovere (ovvero schiacciare con il pugno di ferro qualsiasi possibilità di emancipazione femminile) e l’attrazione fatale verso il sublime potere del sabba, nel quale le donne hanno il potere di essere libere di esprimersi attraverso la musica, la danza e il canto e la fisicità.

Tutto viene predisposto per ripetere il sabba di fronte alla corte, le ragazze scelgono di recitare la propria parte e attraverso la finzione scivolano in un ballo estatico da cui Rostegui viene fatalmente irretito e che consente loro di fuggire.

La conclusione avviene sopra una scogliera a strapiombo sul mare, con la luna piena che si riflette sul mare placido. Da una parte gli uomini, la legge e la repressione, dall’altra un salto verso l’ignoto, le giovani donne portate a compiere una scelta. Scelgono di volare, come i gabbiani di cui parlano le loro storie. Come scrive Richard Bach ne “Il gabbiano Jonathan Livingston”: “Egli imparò a volare, e non si rammaricava per il prezzo che aveva dovuto pagare. Scoprì che erano la noia e la paura e la rabbia a rendere così breve la vita di un gabbiano.”


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