Un mazzo di spighe sulla tomba. ‘Nel nome della terra’ di Edouard Bergeon, al cinema dal 9 luglio

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In Francia ogni due giorni un agricoltore si toglie la vita

Questo film, che ha ottenuto 3 candidature ai César, è un atto di amore e di denuncia verso un sistema che sta stritolando l’economia agricola negli ultimi anni, (e non soltanto in Francia), costringendo i contadini di un tempo a diventare imprenditori e a trasformare il loro lavoro in forme nuove sempre più intensive di coltivazione e allevamento.

La storia vera è quella della famiglia del regista, alla sua prima prova in un lungometraggio di fiction, ed è dedicata al ricordo del padre che aveva ereditato l’azienda agricola, a sua volta dal padre, ma si era fatto pedina di un ingranaggio più grande di lui che lo ha costretto a indebitarsi, a rovinare se stesso, la moglie e i figli, ad alienarsi e a distruggersi fino alla scelta estrema.

Il regista ha parlato della vicenda rappresentata come di una saga familiare che vuole dare una prospettiva umana sull’evoluzione del mondo agricolo negli ultimi quarant’anni.

Prima di pensare questa storia per un film, Bergeon aveva diretto un documentario dal titolo I figli della terra che raccontava proprio la storia di un agricoltore andato in rovina e della sua famiglia distrutta.

Per scrivere la sceneggiatura si è affidato a due co-autori, Bruno Ulmer ed Emmanuel Courcol, ha recuperato tutti i ricordi che lo legavano alla figura di suo padre e ha creato un atto di amore delicato, lieve e rispettoso dei sentimenti, molto pudico e carico di emozione autentica, ovviamente autentica.

Al centro della vicenda tragica c’è la famiglia di Pierre, l’amore per la donna che gli sarà compagna fino alla fine, e i figli, il legame solido dei quattro componenti, l’allegria delle serate in casa, i regali di Natale, la progettualità condivisa, il dialogo nella coppia. Poi, in un climax di dolore e disperazione la depressione di lui, il tentativo della moglie di aiutarlo, il declino lento ma inesorabile dell’uomo distrutto dai suoi fallimenti e da se stesso.

Conflittuale, invece, il rapporto col padre, un contadino d’altri tempi, rigoroso e difensore di vecchi valori che non comprende il figlio, non ne condivide le scelte, non aiuta e giudica con frasi e atteggiamenti inesorabili e duri. Anche qui l’autore e regista ha ricordato l’autorevolezza di suo nonno, il distacco generazionale e l’incomunicabilità tra due visioni della vita e del lavoro; molto doloroso il dialogo tra il figlio, ormai rovinato, depresso, dipendente dai farmaci e dal fumo, e l’anziano padre monolitico nelle sue certezze.

Bravi gli attori: Guillaume Canet ha incarnato la trasformazione del personaggio dall’entusiasmo iniziale alla depressione finale; Veerle Baetens (che ricordiamo nello struggente Alabama Monroe e nel recente Duelles), ha costruito il ruolo di una compagna e madre tenera, innamorata e forte. Intenso il gioco degli sguardi, naturali, eloquente e decisamente vero nella gioia iniziale e nell’angoscia centrale e finale del film.

Nel nome della terra, sostiene il regista, “ha chiaramente un messaggio politico, ma nel sottotesto”; per questo troviamo un’attenzione realistica a tutti i dettagli, a tanti particolari (l’uso di antibiotici nell’allevamento, del glifosato nelle colture di grano, le batterie dei polli…), perché l’intento dell’autore è, anche, quello di suscitare una maggiore consapevolezza negli spettatori che sono consumatori.

Magnifica cornice di colori e di luce nella fotografia (Eric Dumont) degli ampi paesaggi che accompagnano con intento didascalico la vicenda: si passa dai campi assolati delle distese di grano dorato, al grigiore della terra arata, alla neve che col suo manto copre i terreni e lascia intravedere in chiaro-scuro gli scheletri degli alberi secchi. Il tutto in un susseguirsi di scene pittoriche, in un formato scope, che evocano Van Gogh e Cézanne e in una narrazione epica che ricorda l’epopea dei romanzi di Steinbeck.

Le immagini non servono soltanto a creare un’ambientazione, ma aggiungono un commento simbolico, fino alla fine, fino a quel mazzo di spighe dorate che il vecchio padre pone sulla tomba del figlio che ha ceduto e si è arreso tragicamente e crudelmente ai fallimenti della vita.

Nel finale, sulla lapide, compare il vero nome del padre del regista, poi un piccolo documento ricavato da un superotto del tempo, con l’immagine di quell’uomo, di quel contadino a cui è dedicato il film.

 

Nel nome della terra

regia di Edouard Bergeon

con Guillaume Canet nel ruolo di Pierre, il protagonista, Veerle Baetens, Anthony Bajon, Rufus, Samir Guesmi


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