Creare benessere eco-sociale senza crescita del Pil

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Un commento alle policy europee sulla ‘sostenibilità sociale’ alla luce dell’emergenza Covid

Introduzione.

Durante la seconda metà del lockdown ho investito il mio tempo libero dalla didattica online nel documentarmi sugli strumenti di attuazione e monitoraggio delle politiche di ‘sostenibilità sociale’ a livello Europeo. In queste pagine mi dedicherò ad illustrare e commentare un recentissimo studio, prodotto su richiesta del Comitato per Employment and Social Affairs del Parlamento Europeo da un autore collettivo[i]: si tratta un ‘gruppo di ricerca’ composto da studiosi/e ed esperti/e che hanno dato alla luce un corposo documento dal titolo Social Sustainability. Concepts and Benchmark che mi  sembra importante analizzare in questo momento di crisi sociale acuita dall’emergenza Covid. Poiché è stato ultimato e pubblicato tra marzo e aprile 2020, contiene alcuni accenni alla situazione presente.  Il testo offre, oltre ad una disamina preliminare del concetto e degli scopi della ‘sostenibilità sociale’, una discussione dei modi oggi utilizzati per valutarla attraverso una serie di indicatori composti, al fine di contribuire all’integrazione nel policy making europeo di quei processi che riguardano il benessere sociale, l’equità, l’ambiente e l’economia ed ai modi della loro implementazione a livello nazionale, regionale e locale.

Nella prima parte di questo articolo (divisa in due sezioni) attraverserò i risultati teorici di questo studio e la discussione relativa alle policy  illustrando i relativi indicatori.  Voglio anticipare che, al di là dei tecnicismi, le direzioni che prendono tali politiche sociali, i modi in cui vengono attuate e soprattutto il monitoraggio di come effettivamente vengono utilizzati i fondi destinati alla ‘sostenibilità sociale’ (e di come verranno utilizzati nel prossimo futuro) non devono restare materiale per addetti/e ai lavori poiché rappresentano uno snodo politicamente rilevante – in una congiuntura senza precedenti come quella che stiamo vivendo. Si tratta di temi sui quali siamo chiamate/i a capirne di più, a discuterne ed a posizionarci come cittadinanza attiva, sindacati, Ong associazioni del volontariato, movimenti sociali, ecologisti e per la giustizia economica.

Nella seconda parte affronterò una debolezza teorica del quadro di riferimento dello studio in esame, mettendo a confronto due prospettive diverse: da una parte quella dello ‘sviluppo sostenibile’ adottata da autori e autrici del documento europeo; dall’altra il paradigma critico della ‘decrescita selettiva del Pil’, un approccio di cui richiamerò brevemente le ragioni, e l’utilità che esso mostra in questo momento storico-politico di rallentata crescita.

Nella terza parte commenterò il New Deal proposto dalla attuale presidente del Consiglio Europeo Ursula van der Layen; mentre nella quarta parte guarderò a diversi esempi di buone pratiche citate nel documento in oggetto, che combinano i vari elementi della sostenibilità sociale con le misure necessarie per una economia sostenibile ed una transizione ambientale che tenga conto della giustizia inter-generazionale ed intra-generazionale, del superamento delle disparità territoriali, e della urgenza di affrontare la diminuzione delle risorse primarie dovute al cambiamento climatico, con uno sguardo alle tante conseguenze socio-economiche, tra cui l’accresciuta migrazione forzata verso l’Europa.  Reddito, salute, condizioni di lavoro, housing, equità nell’accesso a beni materiali e culturali, rispetto di tutte le diversità, ed una gestione partecipata del policy making sono tra i temi cardine delle pagine che seguono.

Nella quinta parte riassumo le raccomandazioni finali del gruppo di lavoro che ci indica quali cambiamenti sarebbero auspicabili nell’apparato delle politiche sociali europee, sicuramente necessarie in questa fase, ma non sufficienti a garantire che le buone intenzioni del Green New Deal e del Recovery Plan  abbiano successo. Nelle Conclusioni propongo alcune delle riflessioni politiche che hanno animato questo lavoro, nella fase che si sta aprendo su rischi e potenzialità del nuovo ruolo sociale dell’Unione Europea – e uno sguardo de-coloniale al Mediterraneo, alle sperimentazioni democratiche dell’altra sponda.

 

1.1 Scopi e definizioni della sostenibilità sociale

Lo studio del gruppo di lavoro analizza le configgenti definizioni di ‘sostenibilità sociale’  sia nelle teorie che nelle iniziative prese a livello europeo, nell’ implementazione delle politiche, e nelle scelte poste in atto dai vari stati membri. Le autrici e gli autori del documento si pongono 5 obiettivi: il primo è quello di capire le differenze tra varie concettualizzazioni di sostenibilità sociale alla luce di documenti Onu, Ocse e alcune fonti accademiche; il secondo riguarda la misurazione di ciò che si intende per sostenibilità sociale, considerando i Social Development Goals e gli sforzi di comparazione messi in atto da Eurostat, al fine di valutare la possibilità di costruire un Indice di Social Sustainability a livello europeo.

Il terzo scopo è quello di capire come è stata affrontata la questione della sostenibilità sociale nel policy making europeo, e con quali strumenti per l’implementazione – dalle strategie di alto livello al finanziamento, al coordinamento ed al monitoraggio – analizzando vari documenti sulla realizzazione di obiettivi sociali attraverso strumenti quali la Better Regulation Agenda, lo European Semester e i Fondi Strutturali e di Coesione; gli interventi dell’European Economic and Social Committee (EESC) e dell’European Trade Union Institute for Research (ETUI) insieme ad altre entità che hanno prodotto letteratura su come integrare le questioni sociali nelle varie politiche a livello europeo. Il quarto obiettivo di questo documento è di conoscere le diverse modalità attraverso le quali la sostenibilità sociale si è sviluppata nella pratica con esempi di sperimentazioni e soluzioni già attuate; mentre il quinto scopo, quello finale, è di produrre una sintesi sulla situazione attuale, sui gap e sulle opportunità della sostenibilità sociale, con alcune raccomandazione per future azioni.

Tra le varie definizioni di ‘sostenibilità sociale’ prese in esame in questo lavoro sono di particolare interesse due versioni, a mio avviso parzialmente complementari. La prima è quella che rileva la dimensione ‘caotica’ del campo concettuale, mettendo l’accento sul fatto che la confusione e la mancanza di una definizione condivisa tra i vari attori sociali compromettono l’importanza e l’utilità di tale categoria, lasciando che ‘azionisti influenti’ infiltrino nel dibattito le loro priorità travestendole da elementi di ‘sostenibilità sociale’. La seconda definizione è quella del ‘significante vuoto’ (verrebbe da dire che sembra così vuoto anche per la carenza di norme vincolanti che ne difendano le prerogative), per cui la vaghezza e la estrema flessibilità del concetto di sostenibilità sociale sarebbero qualità inerenti allo stesso, che si determinerebbe quindi come uno spazio di discorso sociale senza contenuto definitivo (p. 20).  In effetti queste due posture rispetto alla sostenibilità sociale considerano da angolature diverse lo stesso problema: quello dei rischi di strumentalizzazione da parte di lobby potenti, e quello delle opportunità in termini di apertura alle nuove proposte e inclusioni creative dal basso.

Si chiede questo gruppo di ricerca: che cosa costituisce una buona vita e una buona società? Tra le varie fonti, si cerca di rispondere attraverso tre coppie di tensioni:  ciò di cui la gente ha bisogno contro ciò che è bene per l’ambiente; ciò che la gente vuole contro ciò di cui ha bisogno; ciò che è buono per l’ambiente contro ciò che la gente vuole. In realtà tali dicotomie sono meno nette di come vengono presentate – persino  l’ultima, poiché ‘ciò che la gente vuole’ è largamente un costrutto sociale.  Come abbiamo imparato durante il lockdown, ciò di cui abbiamo bisogno è anche ciò che davvero vogliamo; tra ciò che desidereremmo e ciò di cui abbiamo bisogno sappiamo cosa scegliere: la specie umana ha vissuto su questo pianeta fino a secoli recenti senza riscontrare tale dualismo, volendo il necessario e procurandoselo in un modo che fosse ‘buono per l’ambiente’, ovvero per la sopravvivenza delle generazioni future. I modi di produzione e riproduzione della vita prima del capitalismo avevano i loro limiti, ma erano sostenibili sul piano ecologico, sociale, ed economico.

Nella letteratura si può rilevare una crescente importanza data in questi decenni al tema della sostenibilità sociale, con particolare attenzione alla equità fra generazioni e all’interno di ogni generazione.  La ‘Dichiarazione di Rio’ stilata alla fine della Conferenza Onu su Ambiente e Sviluppo già nel 1992) attribuiva uguale importanza alle dimensioni ambientali economiche e sociali – poi si sono aggiunti elementi di sostenibilità culturale, istituzionale e politica.  Ma nella realtà delle politiche di ogni singolo stato quei ‘principi non vincolanti’  sono stati meno recepiti di quanto si auspicava.  La sostenibilità sociale è sempre stata la dimensione più negletta rispetto alle priorità economiche, ed in minor misura alla ricerca di compatibilità ambientali, nonostante il quadro concettuale nel quale veniva proposta le attribuisse pari importanza, come una delle tre colonne (Pillars) del cosiddetto ‘sviluppo sostenibile’. Un concetto questo molto dibattuto – che fu proposto la prima volta nel 1980 nei discorsi Onu e nel ‘Brundtland Report’ del 1987 – venne ripreso nella conferenza di Rio che lo definì come “sviluppo economico che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere quelli delle future generazione”. Agenda 21 rappresentò il programma attuativo  di questa prospettiva.

Nel primo schema proposto in questo studio (p.18) viene rappresentata la sostenibilità secondo Agenda 21: quella ambientale è collocata nella sfera superiore, che si interseca con le altre due sfere relative a sostenibilità sociale ed economica in posizione subalterna. Ma quest’ultima mai si sia trovata realmente in uno status di inferiorità – esplicitamente enucleando la sua sfera anche fattori considerati prioritari e intangibili quali la ‘crescita’ e  la ‘produttività’. Un approccio critico, anche ai limiti di Agenda 21, che ci faccia prendere in considerazione il peso specifico di tali sfere nella realtà, ci aiuterebbe a misurare la distanza tra la situazione attuale e i rimedi che venivano e vengono proposti da Onu, Unione Europea, ed altre agenzie transnazionali impegnate per quei cambiamenti ecologici, economici e sociali che non ci sono stati, e che oggi percepiamo come urgenti. Forse da tale misurazione di distanza potremmo addivenire alla realizzazione che un apparato di soft law – per quanto ben costruito e coerente – non può essere la soluzione che avrà successo nella situazione attuale, se non è accompagnata da un corpo di hard law  tanto praticabili quanto necessarie.

Se guardiamo alla seconda figura riportata in questo studio (p.19) relativa all’importanza attribuita alla sostenibilità sociale negli ultimi 15 anni, è evidente che vi è stata una crescita media delle ‘menzioni’ – il che non significa un aumento reale e fattivo dell’attenzione delle istituzioni politiche, ma solo quante volte si è nominato il problema; secondo la fonte Google Trend ci sarebbe stata un incremento  in due aree, nei documenti riguardanti le policy e nei discorsi  pubblici. Ma il tracciato assomiglia a quello emblematico della patologia della sincope: per cinque lustri  ogni anno abbiamo una salita ed una discesa notevoli rispetto all’asse mediano di ‘crescita dell’attenzione’ nei riguardi della sostenibilità sociale. Forse ci dovremmo chiedere a cosa può essere dovuto un trend tanto atipico – mi viene da pensare alla legge finanziaria, nell’avvicinarsi delle quale si parla molto di questioni sociali che poi vengono regolarmente ridotte o rimosse dal discorso pubblico, a fronte a certe priorità di budget.

Fino al 2000 l’idea di ‘sostenibilità sociale’ è stata in qualche relazione con (ma subordinata a) una obbligatoria crescita economica, quindi accantonabile come quei vincoli ambientali spesso disattesi. Nemmeno i maggiori teorici dello ‘sviluppo sostenibile’ riescono a sciogliere il dubbio se la sostenibilità sociale sia una parte integrabile o una controparte; se sia la precondizione per lo sviluppo, o solo una costrizione, un ostacolo all’espansione economica.  Oppure se potrebbe rappresentare l’esigenza di sostenere strutture, processi e consuetudini che consentono la riproduzione sociale, a prescindere dall’idea di una (più o meno illimitata) idea di sviluppo.

Nel ventennio scorso si è iniziato a vedere la sostenibilità sociale come una variabile indipendente dalla crescita economica. Il ‘paradigma dello sviluppo’ in qualche misura è entrato in crisi, scontrandosi con i paradossi che esso stesso genera. Uno dei problemi intrinseci è che l’approccio dello ‘sviluppo sostenibile’ non si cura della natura sociale dell’economia e dell’ecologia – non le vede come relazioni che si sono nutrite reciprocamente nel nostro passato pre-capitalistico, così come accadeva nei modi di produzione domestici, fino a pochi decenni fa, quando le formazioni economico-sociali basate sul villaggio e su una piena sostenibilità ambientale sono state impattate da politiche neoliberiste di portata globale. Considerare la sostenibilità sociale come una variabile della crescita economica e dell’aumento di prodotto interno lordo può essere molto fuorviante, nel dibattito attuale.

 

1.2 Obiettivi e indicatori per ‘misurare’ le politiche di sostenibilità sociale

Veniamo agli obiettivi che – indipendentemente dal tipo di definizione adottata – hanno caratterizzato finora e politiche di sostenibilità sociale.  Tra le finalità, esse annoverano i bisogni di base come il cibo e l’abitazione, la ricreazione e realizzazione di sé, varie forme di giustizia, inclusa la equa distribuzione dei redditi, l’accesso a infrastrutture sanitarie, educative, di trasporto, ed ai servizi sociali; fino al rispetto delle diverse identità ed ai diritti umani, incluso il diritto al benessere ed alla felicità. Ma negli aspetti procedurali troviamo una serie di debolezze: spesso ci si limita alla ‘garanzia di accesso alle informazioni’, all’incoraggiamento alla partecipazione, alla comunicazione ed al monitoraggio delle policy – nella consapevolezza della mancanza di un intervento sanzionatorio verso le istituzioni nel caso in cui gli obiettivi vengano disattesi.

I tentativi di misurazione della sostenibilità sociale avvengono nel quadro di una mancanza di consenso su quali debbano essere i suoi indicatori – sia perché buona parte di essi non riguarda dimensioni facilmente quantificabili; sia per l’esistenza di diverse autorità in materia; sia perché la semplificazione di realtà sociali complesse rischia di servire a forme di cooptazione nei processi politici ed economici (p.27). Il sistema di indicatori più utilizzato è quello adottato dalle Nazioni Unite (Sustainable Development Goals – SDG) nel 2017, costituito da 17 grandi dimensioni, 169 obiettivi e 232 indicatori. I progressi vengono valutati da Eurostat e dalla Commissione Europea che considerano quelli più rilevanti per la sostenibilità sociale; si tratta di 7 dimensioni specifiche da misurare: povertà; salute; educazione; equità di genere; ineguaglianze; crescita economica e occupazione; giustizia e istituzioni. Questi obiettivi a livello europeo hanno 6 indicatori ciascuno, in totale 42 – di cui 12 indicatori servono a propositi multipli ed altri 10 indicatori supplementari sono stati presi in prestito da altri obiettivi, poiché hanno rilevanza per la dimensione sociale.

Facciamo un esempio: la dimensione salute secondo i SDG dell’Onu è sintetizzata nell’obiettivo di assicurare vite sane e promuovere benessere per tutte le persone e per tutte le età – ed è articolata attraverso 10 indicatori Eurostat SDG per la dimensione sociale (6 primari più 4 addizionali): aspettativa di vita alla nascita; percentuale di popolazione con salute molto buona o percepita tale; prevalenza del fumo; tasso di mortalità dovuta a malattie croniche; dovuta a tbc, Hiv o epatiti; auto-segnalazioni di bisogni sanitari non corrisposti. A questi si aggiungono come indicatori supplementari: il tasso di obesità; la popolazione che vive in case dove si soffre per il rumore; gente uccisa in incidenti stradali; esposizione ad aria inquinata da particolato atmosferico.

Un breve commento su carenze e limiti di tali indicatori: l’autopercezione di ‘salute molto buona’ può essere altrettanto lontana dalla realtà, l’auto-segnalazione di bisogni sanitari non corrisposti è legata a fattori geopolitici e culturalmente determinati; e la percentuale di incidenti stradali può essere legata a carenze nelle infrastrutture del trasporto. Ma soprattutto si può notare come manchi un indicatore sull’accesso a mezzi di prevenzione primaria e secondaria; e l’assenza del ben noto indicatore di aspettativa di vita sana (Healthy Life Expectancy – HLE) i cui dati sono rilevati da Eurostat.  L’Italia nel suo ultimo rapporto sul ‘Benessere Equo-Sostenibile’ (BES)  reso pubblico il 5 marzo 2020, fra gli indicatori tiene conto della ‘speranza di vita in buona salute alla nascita’ – il cui crollo nel nostro paese (oltre 9 anni per le bambine, e 7 anni per i bambini) prodottosi durante il ‘ventennio berlusconiano’ è un dato dimostrato e mai confutato, spiccando in controtendenza rispetto agli altri paesi europei, le cui curve ‘quantitative’ di aspettativa di vita quantitativa mantenevano lo stesso andamento di quelle ‘qualitative’ nel periodo preso in esame.

La maggiore policy europea che concerne lo sviluppo sociale in anni recenti, l’European Pillar of Social Rights (EPSR) promossa dal Parlamento Europeo, dal Consiglio, e dalla Commissione nel 2017, dovrebbe servire da guida per futuri passi verso il soddisfacimento dei bisogni e dei diritti, delineando una futura Social Europe. Ma al contrario dei Social Development Indicators (SDIs) europei, l’EPSR non si occupa della sostenibilità sociale né in linea di principio né direttamente; né sono identificati degli obiettivi specifici. I progressi degli stati membri vengono monitorati attraverso un Social Scoreboard che delinea la perfomance media europea, e classifica gli stati in base ai punteggi ottenuti secondo 3 categorie generali (pari opportunità e accesso al mercato del lavoro; eque condizioni di lavoro; protezione sociale e inclusione) espressi da 12 sub-categorie e 43 indicatori specifici. Nonostante questi due sistemi di indicatori si basino entrambi su Eurostat, e siano orientati a misurare le stesse condizioni sociali, si rileva che vi sono in comune solo 15 indicatori – tra i 52 Social Development Indicators europei e i 43 indicatori del Social Scoreboard (p. 31-32).

Altri gruppi di indicatori europei hanno a che vedere con i tentativi di benchmarking, di rilevamento e valutazione comparativa proposti da organizzazioni internazionali.  In primis l’Ocse, all’interno dell’iniziativa Better Life orientata a misurare il benessere tenendo conto anche delle questioni ambientali, e basandosi su tre aree: qualità della vita, condizioni materiali, e risorse per il futuro benessere – all’interno delle quali ogni indicatore ha degli obiettivi quantitativi che consentono il monitoraggio verso i Social Development Goals. Altri indicatori composti che includono la dimensione sociale ed ambientale sono l’Inclusive Wealth Index, il Social Progress Index, l’Happy Planet Index ed altri, che hanno a che vedere in specifico con le disparità di genere. Tra quelli più inclusivi troviamo il Sustainable Society Index  che si fonda su tre tipi di benessere: quello economico, sociale ed ambientale. E’ chiaro che questi Indici (oltre ai problemi che hanno tutte le aggregazioni di indicatori, e che vengono rilevati dagli auditor) anche quelli più inclusivi, hanno un limite in comune, quello di considerare economia, società ed ambiente come entità separate. Facciamo l’esempio dell’organic farming: l’agricoltura biologica viene messa come indicatore di benessere economico – ma lo è anche del benessere ambientale e di quello sociale, visti i suoi effetti sulla salute umana e animale.  La mancanza di una visione olistica e di una filosofia sociale condivisa alla base di questi strumenti rendono la misurazione e la comparazione certamente più ardue.

Concordo con le autrici e gli autori di questo studio, sul fatto che per raggiungere un definizione condivisa di ‘sostenibilità sociale’ la concettualizzazione di questa dovrebbe essere distinta da quella di ‘sviluppo sociale sostenibile’ – visti gli elementi che differenziano lo sviluppo socialmente sostenibile dallo sviluppo sociale in generale; inoltre dovrebbe esserci un maggiore approfondimento su come la sostenibilità sociale può interagire positivamente con quella ambientale ed economica, in maniera integrata e non gerarchica. Queste considerazioni ben introducono il prossimo paragrafo, utile a collocare la sostenibilità sociale in un orizzonte più ampio, con un commento sulle criticità teoriche dello studio in oggetto

 

2. La “decrescita” sostenibile

Pur lamentando che la dimensione sociale nel quadro dello sviluppo sostenibile si è sempre trovata marginalizzata, il gruppo di lavoro sembra ignorare un parte significativa della letteratura critica che ha influenzato il dibattito sulla sostenibilità in questi ultimi 5 decenni.  Il concetto di ‘decrescita’ precede di una quindicina di anni quello di ‘sviluppo sostenibile’ – menzionato la prima volta da Andrè Gorz nel 1972, e poi successivamente nei suoi studi su Georgescu-Roegen – inizialmente evolve parallelamente rispetto al concetto di ‘sviluppo sostenibile’ – ma la produzione scientifica sulla decrescita finisce per autonomizzarsi da esso, superandolo. Alla fine degli anni ’60 il Club di Roma e gli scienziati del Massachusets Institute of Technology (MIT) si interrogano all’interno di una sorta di think tank sui problemi ecologici, economici e sociali che affliggono il mondo a livello globale. Nel Report di questo primo studio scientifico condotto sui pericoli della crescita (titolato “I limiti dello sviluppo” e pubblicato nel 1972 dai coniugi Meadows con altri ricercatori) viene proposta la ‘crescita zero’: con lungimiranza si vede la soluzione nella possibilità/necessità di ‘fermare lo sviluppo nei paesi ricchi’, una raccomandazione che non ha precedenti. “Stop Development” diventerà a livello globale nei decenni successivi lo slogan di movimenti sociali ecologisti e per la salute, impegnati ad affrontare problemi come l’inquinamento, l’esaurimento di fonti energetiche non rinnovabili,  la penuria di materie prime, e la distruzione di interi eco-sistemi – dalle paludi ai ghiacciai ai boschi primari, dalla desertificazione alla estinzione di specie importanti nella catena della riproduzione (anche nostra).

Nel frattempo i grandi della terra firmano accordi non vincolanti sul clima e non si oppongono a politiche predatorie di sottosviluppo programmato dei paesi poveri, nel quadro di una globalizzazione neo-coloniale, ad opera di governi e multinazionali irresponsabili.  Si parlerà sempre più spesso di ‘Paesi in Via di Sotto-sviluppo’ fino ad una sintesi funzionale – prodotta James O’Connor: il concetto di uneven and combined development che spiega come lo sviluppo di alcuni paesi può avvenire solo a prezzo del sottosviluppo di altri, a cui viene negata la possibilità di auto-sussistenza attraverso le politiche del debito. E questo processo è riscontrabile anche all’interno dei singoli stati-nazione ove sono compresenti aree di sviluppo e sottosviluppo ‘a macchie di leopardo’, oppure in una divisione territoriale tra nord-sud come in Italia. Una parte del paese può ‘crescere’ grazie a materie prime, energia e forza-lavoro (a basso costo di riproduzione perché proveniente da zone depresse) e grazie  anche all’esternalizzazione di costi ambientali  come lo smaltimento illegale dei rifiuti industriali proprio nelle stesse aree depresse, mantenute funzionalmente ‘in via di sottosviluppo’. Infatti lo sviluppo non può darsi in maniera equa e felice ovunque, sia per mancanza delle risorse necessarie, sia perché ha bisogno del sottosviluppo in forma combinata, per realizzarsi.

Lo ‘sviluppo sostenibile’ sarebbe così un ossimoro: il tentativo malriuscito di moderare i danni di una espansione economica voracemente fuori controllo, uno sforzo pressoché vano di limitare l’ossessione e l’affannosa ricerca degli utili a qualsiasi costo. Non è solo profit over people (nelle società fondate su rapporti di capitale questo è purtroppo usuale) ma la compulsione autodistruttiva ad una crescita senza fine, l’obbligo allo sviluppo continuo ed all’aumento di produttività (anche durante le crisi di sottoconsumo). Come ci hanno dimostrato le femministe marxiste (Maria Rosa e Giovanna Franca Dalla Costa, Silvia Federici, Leopolda Fortunati, Antonella Picchio – ancora poco studiate nell’attivismo e nei movimenti italiani), il capitalismo non è mai stato sostenibile né dal punto di vista delle risorse naturali né dal punto di vista della salute umana; e lo sviluppo ‘sostenibile’ appare come una pia proposta di correttivo volto a migliorare le attuali relazioni di capitale, inserendo alcuni limiti ambientali e sociali. Ma in un contesto di competizione economica mondiale senza precedenti – che rasenta pericolosamente vari tipi di guerra – tale esortazione resta pressoché inascoltata, oppure applicata superficialmente per operazioni di maquillage governativo.

Da Ivan Illich a Vandana Shiva, da James O’Connor a Serge Latouche, da John Bellamy Foster ad Ariel Saleh e Arturo Escobar, da  Sylvia Lorek e Doris Kallis a Giorgos Kostakis e Steffen Lange, Barbara Muraca e Susan Paulson,  c’è una lunga schiera di scienziati/e, economisti/e, esperti/e di sostenibilità sociale ed eco-compatibilità, che hanno prodotto studi convincenti sull’utilità di una riduzione selettiva del Pil, abbinata ad investimenti sui settori primari strategici per la riproduzione sociale, ad una politica di riduzione degli sprechi, eco-incentivi per la riconversione industriale ed sanzioni per i crimini ambientali e sociali (al momento i top manager responsabili di disastri vengono congedati con liquidazioni milionarie).

Pur non definendosi all’interno del “paradigma della decrescita”, molti/e studiosi/e ne sono stati profondamente influenzati – tra essi il Nobel dell’economia Amartya Sen che autorevolmente accantona  il concetto di sviluppo inteso come crescita economica per proporre un’idea di ‘sviluppo umano’ che abbia al centro la libertà e la felicità di tutte le persone.  Un benessere equo e sostenibile può darsi solo se nessuno/a viene escluso.  Il ben-essere significa anche ben-avere e una riduzione di ciò che è superfluo, e spesso inutile o dannoso, è auspicabile specie nelle società occidentali ove il sovra-consumo di trash food (merendine dolci, patatine salate, bibite zuccherose) alcolici e tabacco, insieme all’inquinamento atmosferico e chimico, è tra le cause principali della mancanza di salute, e pesa notevolmente sui sistemi sanitari.

Il sistema produttivo ed economico basato su una crescita quantitativa illimitata del PIL non solo contraddice la limitatezza delle risorse materiali ed energetiche del nostro mondo, ma impedisce quella ‘crescita qualitativa’ che Fritjof Capra inaugurava, nei suoi scritti con Hazel Henderson, “per un’economia ecologicamente sostenibile e socialmente equa” – e che vedeva come antidoto  l’intraprendere con decisione una controtendenza, con un cambio di valori e volontà politica, per evitare la distruzione delle nostre possibilità di vita nel pianeta.

Durante la “Seconda Conferenza Internazionale sulla Decrescita Economica per la Sostenibilità Ambientale e l’Equità Sociale” – tenutasi all’Università di Barcellona nel marzo 2010 – si è messo in luce quanto la cosiddetta crescita in molti paesi fosse un processo esogeno, forzato dal debito – una violenza sulle economie locali,  foriero di disastri sociali ed ambientali nonostante le ‘buone intenzioni’ dichiarate. In tale consesso a Barcellona, una trentina di gruppi di lavoro, composti da circa 500 scienziati/e, personalità accademiche ed esponenti dell’attivismo ecologista e sociale, dotandosi di una metodologia politica partecipata, hanno elaborato alcune idee per una decrescita sostenibile sia socialmente che sul piano ambientale.

Sono state così prodotte una serie di linee guida che mi sembra appropriato considerare in questo momento di emergenza Covid e di rivisitazione dell’impegno sociale delle istituzioni europee e degli stati, ed utile giustapporre alle misure prese in considerazione dallo studio in esame. Le idee per praticare la decrescita sostenibile includono l’istituzione di un tetto per gli stipendi più alti e un reddito minimo di base per chi si trova nelle fasce più basse, la riduzione delle ore lavorative e il job-sharing, un sistema di tassazione che agisca sulle ineguaglianze di reddito e l’investimento sociale nelle aree più degradate; dalla creazione di infrastrutture per l’ambiente e risorse per i santuari naturali, alla promozione di imprese locali autogestite; dalla riduzione della invasione pubblicitaria a campagne per scoraggiare il sovra-consumo di beni superflui e plastiche usa/getta, fino alla tassazione delle merci dannose per l’ambiente e la salute; la creazione di un sistema di sicurezza sociale che non sia assistenzialista ma che crei competenze e lavoro di qualità; politiche integrate per sostenere piccole imprese che hanno valore sociale abbandonando grandi opere costose e nocive; moratoria nell’industria estrattiva e altri settori laddove biodiversità e valori culturali vanno protetti, con provvedimenti che compensino coloro che lasciano le risorse nella terra;  potenziamento dei trasporti pubblici e costruzione di infrastrutture per la mobilità in bicicletta o a piedi, e persino l’implementazione di quello smart working che sembrava così irrealizzabile fino a poche settimane fa.

Il cambiamento della decrescita necessita una ‘de-commercializzazione’ della politica in favore di una partecipazione diretta della cittadinanza nella produzione di decisioni verso il bene comune, implementando approcci dal basso, coinvolgendo le agency della società civile, negli spazi urbani e nelle aree rurali, promuovendo la leadership delle donne e dei gruppi marginalizzati politicamente. E’ necessario, affinché ciò avvenga, un superamento della corruzione come sistema di governance, una forte riduzione di nepotismo, favoritismo politico/religioso, relazioni patron-client a livello istituzionale, nella gestione dei fondi pubblici e delle risorse collettive.

Il cosiddetto ‘sviluppo’ non ha finora portato ad una distribuzione equa della ricchezza prodotta nei vari sistemi economici – anche quando si è ammantato dell’aggettivo ‘sostenibile’ non si è mai dimostrata la possibilità di separare la crescita economica dalla crescita del suo impatto negativo sul piano ecologico e sociale. Dopo trenta anni di teorizzazioni e tentativi non si sono affrontati in maniera significativa i problemi che si volevano risolvere.  Bisogna cambiare prospettiva, allargarla e guardare ad altre forme di ricchezza, alla salute degli ecosistemi, al livello di uguaglianza nel rispetto della differenza, alla qualità della democrazia, alle relazioni tra la gente e le istituzioni della giustizia: il mondo non è mai stato così ricco per pochi, e così povero per molti – interessando una crescente parte della popolazione mondiale – e questo riguarda anche l’Europa.

Tale divario infatti è in aumento anche all’interno dei nostri paesi europei e la polarizzazione tra classi basse e classi alte è una realtà non occultabile. Gli interventi di soft law, per quanto meritori, non sono adeguati, serve una nuova politica economica e una riforma agraria: la tensione alla ‘crescita’ industriale è sterile (anche quando si applica all’agricoltura) e da decenni non crea occupazione, tanto meno occupazione di qualità. Le politiche economiche finalizzate a superare la crisi e a rilanciare la crescita sostenendo la domanda attraverso la spesa pubblica – così come la riduzione delle tasse e il credito al consumo – hanno fallito miseramente. Sembra un paradosso ma in questa fase storica (e ancor più con l’emergenza Covid) nei paesi industrializzati la decrescita è l’unico modo di creare occupazione.

 

3. Il New Deal di Ursula von der Layen

Con la partenza  della nuova Commissione Europea guidata da Ursula von der Leyen, si è aperto uno scenario meno ‘sviluppista’ e più attento alle dimensioni eco-sociali: il Green Deal si propone come strategia per rendere l’Europa il primo continente climate-neutral entro il 2050 attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro, investimenti con priorità all’energia pulita, industrie e mobilità sostenibili, migliorie nell’edilizia, eliminazione dell’inquinamento, biodiversità e una produzione di cibo che sia Farm to Fork – dalla fattoria alla forchetta. Questa Commissione ha messo l’accento su fatto che il modo in cui il Green Deal si mette in atto è tanto importante quanto i risultati ottenuti: si tratta di un percorso che deve essere giusto e inclusivo, alla fine del quale c’è il benessere della gente. Infatti la ‘neutralità climatica’ si può raggiungere solo se certe politiche sociali sono state implementate; la transizione all’energia pulita funziona se ne beneficiano anche i consumatori.

In tale direzione alcuni strumenti sono stati approntati tra cui il Just Transition Mechanism che include un apposito fondo per le regioni e i settori che maggiormente dipendono da carburante di origine fossile affinchè si impegnino in una transizione eco-compatibile – e dal punto di vista della sostenibilità sociale questo è cruciale per la protezione di chi lavora e delle persone disoccupate e sotto-occupate, che potranno usufruire di re-training, abitazioni e nuove occupazioni. Tale ‘Meccanismo per una giusta transizione’ è parte di un ampio piano chiamato  Sustainable Europe Investment Plan (SEIP) che riguarda tutti gli investimenti del Green Deal e dovrebbe mobilitare mille miliardi di Euro nel decennio entrante, coprendo circa la metà dei bisogni di finanziamento del Green Deal.  E’ stata approntata una Roadmap di ‘azioni chiave’ che punta su due rilevanti aree per la sostenibilità sociale: l’integrazione dei Sustainable Development Goals nel Semestre Europeo già dal 2020, e specifiche articolazioni del Just Transition Mechanism – al quale viene assegnato un fondo 7.5 miliardi di euro, il Just Transition Fund, e una Just Transition Platform. composta da staff della Commissione Europea, Ma tali strumenti pensati ‘per una transizione giusta’ come vedremo non esauriscono gli obiettivi del Green Deal.

Qualche mese prima di concludere il suo mandato, il Consiglio della Commissione Europea presieduta da Junker pubblicò le sue conclusioni riguardo la Economy of Well-being – una serie di suggerimenti per la Commissione che si sarebbe insediata di lì a pochi mesi. Nel Gennaio 2020, ad un mese dal suo insediamento, la ‘risposta’ di Ursula von der Layen è stata una Comunicazione titolata Strong and Social Europe for Just Transition. Gli aspetti salienti di tale comunicazione sono apprezzabili nello schema comparativo fra i due documenti, proposto da questo studio (p. 48-49), che mette efficacemente a confronto le raccomandazioni del vecchio Consiglio e le misure/iniziative proposte dalla nuova Presidente.  La necessità di una economia socialmente coesa viene recepita con il lancio di un Action Plan for the Social Economy che rafforzi gli investimenti sociali e l’innovazione – affrontando anche la sicurezza e la salute sul lavoro, l’equità di genere, le strategie per la disabilità e per l’infanzia che vive in povertà, e le iniziative per i/le Rom (sperando non siano divisive rispetto alle popolazioni Gitane non-Rom, evitando le separazioni prodotte in passato tra gruppi zingari etnici e non-etnici).

Un altro strumento pratico, la Better Regulation Agenda guida i cicli di policy making nelle istituzioni europee dalla identificazione dei problemi alla implementazione delle soluzioni, fino a monitoraggio e valutazione, ed ha avuto risvolti per la sostenibilità sociale da quando è stata lanciata nel 2002. La sua cassetta degli attrezzi include metodologie per la valutazione dell’impatto così come per le consultazioni pubbliche e il coinvolgimento di attori sociali, soggetti economici e sindacali, nella costruzione delle politiche.  Ma la Better Regulation Agenda è stata anche criticata, sia per essersi mostrata più sensibile verso azionisti ‘professionali’, lobby ed altri portatori forti di interessi; e per essere stata meno attenta nei confronti di lavoratori, gruppi civici, attivismo sociale.  Altri rilievi vengono mossi all’Agenda, riguardanti la sua enfasi sui costi e sulla semplificazione, anziché sul rapporto costi/benefici; ed è stata nel mirino delle associazioni dei consumatori, delle Ngo e dei sindacati per le priorità date all’economia rispetto alle questioni ambientali e sociali. Tali critiche hanno portato alla creazione di un Better Regulation Watchdog, un organismo che controlla dal basso l’Agenda di Better Regulation.  La nuova Commissione si è impegnata direttamente a migliorare i modi in cui la sostenibilità sociale è considerata nelle Better Regulation Guidelines e nel suo Toolbox affinchè si mantengano le promesse, quel ‘giuramento verde’ per cui come minimo le iniziative europee non debbano creare danni (do not harm).  E’ molto interessante notare che, tra impatti sociali elencati nello strumento n. 19 del Toolbox, già nel 2017 viene indicato lo sviluppo sostenibile come ‘addizionale’ e separato dalle 3 grandi colonne di intervento (economic, social, environmental Pillars) corredato da nessuna linea guida per valutare l’impatto collettivo di tale ‘sviluppo sostenibile’ – così come non viene fornita alcuna spiegazione su come la sua valutazione abbia a che fare con l’impatto economico, sociale ed ambientale. Un accantonamento del concetto di ‘sviluppo sostenibile’, che farebbe presagire al suo abbandono.

Al centro dell’azione politica della Commissione e del Consiglio, l’European Semester  ha rilevanza per quanto riguarda la governance socialmente sostenibile.  Istituito nel bel mezzo della crisi economica nel 2010 per monitorare processi e performance dei paesi dell’Eurozona, è uno strumento di coordinamento fiscale oltre che di governance macroeconomica, ed ha la possibilità di sanzionare stati membri che deviano eccessivamente dalle raccomandazioni, ad esempio quando vengono fatti tagli nella spesa pubblica che hanno effetti negativi su salute ed educazione. Ma il Semester ha la possibilità di agire anche direttamente sulla sostenibilità sociale attraverso il Social Open Method of Coordination (Social OMC) con misure di soft-law per protezione e inclusione sociale ma talvolta con poca coerenza. Infatti tra le accuse indirizzate all’European Semester c’è quella di subordinare gli obiettivi sociali a quelli fiscali, ed alla competizione economica. La necessità di una ‘democratizzazione’ di questo processo è stata segnalata anche dalla intenzione della Commissione di coinvolgere maggiormente il Parlamento Europeo – una misura che alcuni hanno criticato come ‘troppo poco’ (p. 66).

Altri strumenti utilizzati per la sostenibilità sociale, sui quali necessita un intervento, sono analizzati in dettaglio in questo studio europeo:

– le Country Specific Recomendations (CSRs) raccomandazioni spesso non implementate, e le cui basse performance non vengono riportate: ci sarebbe stato un sensibile peggioramento tra il 2014 e il 2017, ad esempio nel settore ‘salute’ il tasso di implementazione  è stato tra il 36% e il 55%;

– l’Annual Sustainable Growth Strategy (ASGS) – che fino all’ultimo anno della Commissione Junker era semplicemente Annual Growth Strategy – cerca di combinare sostenibilità ambientale e crescita produttiva, stabilità macro-economica ed equità, scoprendo tardivamente,  lo scorso anno, che ‘La crescita economica non è fine a sé stessa. Una economia deve lavorare per la gente e il pianeta’;

– i Fondi Strutturali Europei, meccanismo apprezzato per sostenere la sostenibilità sociale, non la riguardano direttamente ma hanno obiettivi importanti su salute, occupazione, eguaglianza e coesione sociale. Nei tre lassi temporali presi in considerazione (che corrispondono ai periodi di finanziamento 2000-2006; 2007-2013; 2014-2020) si evidenziano fili conduttori comuni come la gender equality e la protezione ambientale. Nell’ultimo periodo in particolare i Fondi Strutturali Europei sono stati collegati a delle  Ex-ante Conditionalities (pre-condizioni affinché l’obiettivo sociale possa essere raggiunto) ed ai Country Specific Reports, attirando un numero di critiche. Infatti, se all’interno del Semester  la protezione sociale viene vista solo come un costo – e questo può determinare condizioni per la sospensione dei fondi –  gli stati membri sono spinti ad indebolire i loro sistemi di protezione sociale cercando di contenere deficit e debiti – e questo va a peggiorare direttamente le condizioni sociali  (p.74).  Si creano così effetti contro-intuitivi, nel quadro di interventi che rimangono settoriali, e che mantengono una separazione tra misure soft e misure hard anziché una loro integrazione.  I risultati non sono entusiasmanti – pensiamo alla gender equality e al superamento delle discriminazioni – troppo spesso hanno un successo limitato all’aumento della consapevolezza del problema (p.79)

 

4. La ‘sostenibilità sociale in pratica’

La parte più interessante di questo studio europeo riguarda gli esempi delle pratiche in corso, che danno l’idea di quanto la società possa essere più avanti della politica.  Spesso combinata con forme di innovazione in vari settori, la capacità di usare in maniera sostenibile le risorse naturali, andando incontro ai bisogni delle comunità, produce benefici agli ecobusiness che fanno questo tipo di scelta. Economie circolari che riducono l’impatto ambientale e producono posti di lavoro di qualità, equo accesso alle risorse ed ai servizi sociali sono legate alla possibilità di progettazione partecipata di tutti gli attori sociali interessati/e, tenendo conto dei bisogni abitativi e della presenza di polmoni verdi, della necessità di risparmio energetico e del riciclaggio conveniente dei rifiuti; e simultaneamente  realizzando una redditività dell’iniziativa economica, con il protagonismo della cittadinanza in nuove forme politiche partecipative di co-design. Quando i problemi ecologici, economici e sociali sono così inestricabilmente connessi, essi non possono essere risolti uno alla volta, ma in maniera integrata e sincrona.

Il modello finlandese emerge come il migliore tra gli esempi di strategie nazionali, avendo introdotto una apposita commissione già dal 1993 sulle questioni della sostenibilità, in collaborazione con compagnie, organizzazioni, cittadinanza, scuole e Ong – a tutti i livelli e dando ai tre Pillar uguale status, mettendo al primo posto il benessere socio-economico, la qualità della vita, e riducendo al tempo stesso gli impatti negativi sull’ambiente. I progressi delle policy sono valutati sia da persone esperte che da ogni cittadino/a finlandese attraverso appositi panel – dove ciascun individuo accede personalmente, valuta, critica, fa proposte (p. 79).

Nel paragrafo 45 della Agenda 2030 (approvata dalle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, con 17 obiettivi articolati in 169 Target, cfr. https://asvis.it/agenda-2030/) si menzionano il ruolo e la responsabilità dei parlamenti nazionali nel tener conto degli obiettivi in accordo con i Sustainable Development Goals – sia nel budget nazionale che regionale e locale – ma tale allineamento non pare sia avvenuto nel nostro paese, come in gran parte degli stati membri (che hanno adottato i principi economici/ecologici dell’Agenda 2030 ma non quelli della sostenibilità sociale). L’Italia sul piano formale integra i SDGs nell’annuale documento finanziario, ma solo con ampie linee guida e il monitoraggio avviene attraverso il già citato rapporto sul Benessere Equo-Sociale (BES). La Germania invece sembra avere molto successo nei livelli locali di governo, con le ‘Municipalità per la Sostenibilità Globale’ che implementano l’Agenda a livello di grandi e piccole città, e nei distretti rurali, con il coinvolgimento di stakeholder molteplici, sistemi di trasferimento di conoscenze da una municipalità all’altra, scambi professionali e di consigli utili, l’introduzione di una Card assicurativa per le persone rifugiate, e un approccio partecipativo. Tra le buone pratiche è citato anche il ‘Laboratorio Milano 2046’, un progetto a lungo termine promosso dalla presidenza del Consiglio Comunale, per una gestione partecipativa del benessere della comunità, e una Roadmap verso futuri desiderabili. Mentre non considererei i boschi verticali e gli altri esperimenti di abitazioni di lusso come esempi propagabili di sostenibilità economica, ecologica e sociale.

Le istituzioni della sostenibilità svedese integrano diverse agenzie – da quelle che si occupano delle politiche per la casa, a quelle per l’ambiente, per i trasporti, per l’economia –  puntando su cooperazione, coordinamento, sviluppo di conoscenze e loro disseminazione, condivisione di esperienze, ovvero sul capitale culturale che necessariamente deve affiancare gli investimenti materiali – in piattaforme funzionali che implementano i progetti. L’Onu ha notato come la piattaforma svedese Gender Equal Cities Initiative abbia lavorato positivamente su tre aree importanti – inclusione, diritto alla casa, rivitalizzazione delle piccole città, e la indica tra le buone pratiche.

Nell’est Europeo vanno segnalate esperienze di distretti urbani sostenibili e sodalizi economici che operano nuove sinergie, come a Budapest la public-private partnership (PPP) co-creata per unire comunità di residenti in alloggi sociali che, al contrario dell’usuale e inadeguata edilizia popolare, tiene conto delle famiglie, delle questioni sociali e dell’efficienza energetica, disegnando comunità collaborative nell’uso della terra e dei materiali riciclabili, promuovendo nuovi business anche basati sul baratto.

In Francia alcuni esperimenti propongono un cambio di prospettiva nella ricerca di soluzione a vecchi problemi come la marginalizzazione di settori di popolazione senza abitazione. Un progetto come Housing Toward Empowerment denota l’applicazione di quella necessaria simultaneità di cui scrivevo sopra, e la realizzazione (anche se non esplicita) di un approccio ‘intersezionale’.  Per la verità, pure nella prima parte di questo studio, nella lunga disamina sugli indicatori della sostenibilità sociale, anche quando sarebbe stato più che opportuno: nessuna menzione viene fatta in questo lavoro al metodo intersezionale che qualche merito ha avuto in questi ultimi 3 decenni nello spostare la barra dell’intervento su questi temi a livello globale: da un approccio single-issue si è passati/e alla presa in considerazione di grandi ‘assi di diseguaglianze’ che si intersecano generando discriminazioni multiple – le quali non sono la semplice sommatoria di ognuna ma spesso la loro moltiplicazione – e che possono essere affrontate solo simultaneamente. L’approccio è stato recepito anche dall’Europa venti anni fa (par. 14 Dir. 2000/43/CE); ma come spesso avviene, più nella teoria che nei fatti.   In Belgio l’edilizia collaborativa per la creazione di progetti come Care and Living in Community hanno intersecato con successo i bisogni di valorizzare le differenze di genere con quelle culturali ed intergenerazionali – nella consapevolezza che le differenze non vanno solo guardate dall’angolatura delle diseguaglianze – rafforzando così la comunicazione fra anziani, bambini e adolescenti,  in tal modo promuovendo la coesione sociale nel quartiere. Il progetto Onu ‘SWITCH to Green’ rappresenta una serie di iniziative che aiutano a trasformare il concetto di sostenibilità ambientale in opportunità di lavoro, riduzione della povertà e produzione di reddito – fondando economie circolari che ricordano quelle del villaggio, ma in larga scala.  Come ‘La REcyclerie’ di Parigi – costruita nel sito di una stazione ferroviaria abbandonata – da centro di riuso e riciclaggio si trasforma in un punto di incontro con bar, ristorante, biblioteca, circolo di iniziative culturali e fattoria, offrendo corsi, workshop, pasti bio a buon prezzo, e facilitando le interazioni sociali a livello locale sulle questioni relative alla sostenibilità.   Anche a Bruxelles nuove start-up avviate dall’imprenditorialità giovanile combinano ecologia, economia e coesione sociale nella creazione di lavori di qualità; come la ‘Permafungi’ che coltiva tonnellate di funghi biologici sugli scarti della produzione della birra, e ora cercheranno di fare la stessa cosa con le rimanenze del ciclo di produzione delle cioccolaterie belghe.  Tra le buone pratiche illustrate da questo studio ci sono anche quelle di business privati come ‘Ambienta’; la spagnola ‘Bolsa Social’; e multinazionali come ‘Naturgy’, una compagnia del settore energetico a polo spagnolo, ma presente in una trentina di paesi, che offre prodotti e servizi ecologicamente sostenibili affrontando i problemi della povertà e dell’esclusione sociale attraverso l’omonima fondazione che sostiene gruppi vulnerabili con training professionali, ristrutturazione delle case sociali e delle scuole in maniera compatibile con l’ambiente.

 

 5.     Le Raccomandazioni tecniche di fine-studio

Alcuni elementi di cambiamento sono già emersi: l’incremento nella partecipazione della cittadinanza, il coinvolgimento delle comunità urbane e rurali nelle decisioni economiche, ecologiche e sociali, che riguardano il benessere di oggi e quello di domani. Ma anche è emersa la necessità di sostenere queste esperienze – nate dalle esortazioni delle istituzioni europee e da esperienze della cittadinanza attiva, dall’impegno di movimenti sociali, Ong e sindacati – con delle legislazioni efficaci e integrate a livello nazionale, regionale e locale, affinché le potenzialità per le pratiche eco-compatibili e socialmente sostenibili possano realizzarsi su larga scala. Non è automatico che l’economia verde sia anche sociale, e un intervento su questo anello debole sarebbe importante – anche a fronte di un monitoraggio tenue, che spesso non tiene conto della realizzazione degli obiettivi, degli indicatori, delle strategie – vista l’inesistenza di un apparato sanzionatorio su certe materie.  Il gruppo di esperte/i che ha prodotto questo utile studio enuncia le sue Raccomandazioni puntando ad maggior impegno strategico delle policy europee, a partire da una definizione non equivoca di cosa sia la sostenibilità sociale.  Sul piano concreto si auspicano i cambiamenti che seguono.  L’Action Plan for the Social Economy in programma per il 2021 dovrebbe rafforzare gli investimenti in questo settore, sostenendo i posti di lavoro nella cura, nella salute e appianando gli squilibri esistenti e carenze di manodopera in alcuni settori, riequilibrando il rapporto tra vita e lavoro, le dimensioni legate al genere ed ai rapporti intergenerazionali.  L’European Pillar of Social Rights dovrebbe tradurre in piani di azione (per ogni principio,) le articolazioni sociali, economiche, ambientali; mentre l’European Gender Equality Strategy è chiamato sviluppare maggiormente le potenzialità del lavoro delle donne – anche se non si accenna nel documento a direzioni o linee di rafforzamento specifiche. La Strategy for Disability pure dovrebbe essere presentata nel 2021, ed abbinare la transizione verde alla creazione di posti di lavoro per le persone disabili, al supporto per chi necessita cure a lungo termine creando in questo settore posti di lavoro che non siano più irregolari.  Gli autori e le autrici raccomandano una revisione delle politiche migratorie alla luce degli squilibri generazionali ed alle carenze di forza lavoro nella cura, nella salute e nella sanità. Infine la revisione e precisazione degli indicatori è desiderabile, se si vuole definire un approccio strategico alla sostenibilità sociale, con delle normative chiare e condivise sia per la messa in atto che per il monitoraggio:  su un centinaio di indicatori (SDIs) al momento solo 16 sono corredati da obiettivi.  Le procedure della Better Regulation Agenda, pur avendo aumentato rigore e trasparenza, non sono pensate per assicurare coerenza strategica con gli obiettivi di sostenibilità che l’Europa vuole perseguire. Una revisione degli strumenti è necessaria, ad esempio: l’equità è menzionata, ma solo come conseguenza della crescita economica, o come vantaggio nella competizione delle economie di mercato. Inoltre l’identificazione degli impatti fra misure economiche, ambientali e sociali può integrare maggiormente gli interventi; e un passaggio da valutazioni solo quantitative ad anche qualitative sarebbe di utilità a policy makers e nell’implementazione ai vari livelli.  Rispetto allo European Semester molte sono le raccomandazioni di questo studio. Il primo è di accrescere l’importanza degli indicatori sociali nella Macroeconomic Imbalance Procedure (MIP) che produce un attento monitoraggio ed ha il potere di sanzionare gli stati membri se non danno uguale peso alla sostenibilità sociale, rispetto a quelle economica ed ambientale. Ma attualmente solo 4 dei 14 grandi indicatori del MIP hanno a che vedere con la sostenibilità sociale, e tutti e quattro riguardano l’occupazione, lasciando sguarnite le altre dimensioni e  nascondendo diversi problemi sociali. Quindi gli indicatori MIP necessitano di una revisione in senso espansivo, ed il loro monitoraggio ottenere la stessa qualità che si garantisce ai livelli macroeconomici e fiscali. Ogni stato membro dovrebbe spiegare i modi in cui le sue politiche possano raggiungere gli obiettivi, e i loro Report essere più integrati, così come gli indicatori del Social Scoreboard e gli strumenti di monitoraggio.  Bisogna raggiungere un buon livello di mainstreaming anche nella sostenibilità sociale; un più intenso coinvolgimento degli attori sociali interessati, che migliorerebbe l’implementazione delle policy e la qualità dei Report.  Un maggiore interessamento di altri soggetti istituzionali, come l’Employment and Social Affairs Council e l’ECOFIN (il Consiglio degli Affari Economici e Finanziari), oltre alle autorità locali e regionali, ed organismi di ricerca, organizzazioni non governative ed altri partner sociali, può completare il quadro delle sinergie necessarie a far decollare un cambiamento che ancora stenta a prodursi.   Infine per i Fondi Europei – rispetto ai quali pure è segnalata la necessità di una strategia che integri la sostenibilità sociale nei meccanismi di finanziamento per il periodo 2021-2027 – le raccomandazioni riguardano la promozione di approcci che attraversano i vari settori degli obiettivi sociali e principi orizzontali sulla sostenibilità, stressando le seguenti aree: equità di genere e non discriminazione; integrazione degli obiettivi delle politiche sociali europee nel monitoraggio dei fondi strutturali; passaggio dal considerare la spesa sociale solo come un costo alla sua valorizzazione come opportunità di investimento; rafforzamento del legame tra Fondi Strutturali e i Country Specific Reports, con una gestione partecipata, integrando prospettive e conoscenze diverse.

 

6. Riflessioni conclusive. 

Prima della pandemia Covid-19, ci sembrava ‘normale’ che le società occidentali (e quelle che ci hanno più o meno forzosamente emulato) fossero condizionate da un consumo spropositato di beni che non sono sostenibili, né a livello ecologico né a livello di salute umana.  Pensiamo alle plastiche usa e getta, ai carburanti fossili, alla telefonia cellulare che, vale la pena di ricordare, dipende dall’estrazione di Coltan in Congo, e rappresenta un rischio sia per l’infanzia che lo produce (il lavoro dei bambini e delle bambine è così indispensabile per la creazione di extra-profitti!) sia per la salute dell’utilizzatore finale, a causa dell’esposizione elettromagnetica – che si aggiunge alle altre multiple exposure della nostra vita quotidiana..

Durante il tempo fermo del lockdown, abbiamo avuto la possibilità di riflettere sul nostro futuro individuale, così connesso a quello collettivo, e a ciò che chiamiamo in maniera antropocentrica, ‘la natura’.  Natura della quale ci sentiamo ancora proprietari/e più che custodi per le generazioni future.  L’esperienza della seclusione, della mancanza di libertà di movimento, della separazione dalle persone care  – mentre una minoranza era costretta al superlavoro per salvare vite umane – quello spazio tempo bloccato in cui tutti/e guardavamo con sgomento i numeri delle persone morte ogni giorno, ha avuto almeno una conseguenza positiva, contribuendo al diffondersi di una consapevolezza del limite che abbiamo varcato.  Si è sprigionata la cognizione che è possibile quel cambiamento di rotta auspicato da movimenti sociali ed ecologici da tempo. Se ne era già accorto, giusto un anno fa, anche il Giornale della Finanza, (https://giornaledellafinanza.it/2019/05/20/decrescita-felice-e-altri-paradigmi/). Si può cavalcare e non subire la riduzione della crescita – orientandone la direzione verso una consapevole e programmata decrescita.  Oggi, in un clima di pre-recessione, è cruciale prendere sul serio tale sfida.

Se l’Europa – dopo un passato coloniale non ancora riscattato – è una confederazione di libere nazioni che aborrono la guerra, i cui popoli aspirano ad unirsi tra loro e con i popoli di altri continenti, nel nome della democrazia e della solidarietà, in un momento come questo ci si aspetta dalle istituzioni europee che hanno potere decisionale una virata più risoluta nel sostenere le esigenze sociali, promuovere giustizia economica ed eco-compatibilità.  Il ruolo del Consiglio e del Parlamento Europeo potrebbe essere determinante nella gestione di una crisi che si preannuncia profonda. La Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro (Anpal) ha annunciato che quest’anno si perderanno 500.000 posti di lavoro in Italia, mentre nel 2021 se ne dovrebbero recuperare solo la metà. Secondo una previsione ottimistica, il recupero permetterebbe di tornare alla situazione pre-crisi nel 2023. Mentre l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) sostiene che globalmente si perderà il 6,7 delle ore di lavoro totali (l’equivalente di 195 milioni i posti a tempo pieno) che stanno evaporando a causa della emergenza Covid, una crisi che a Ginevra ritengono paragonabile a una Grande Depressione.

In un contesto cronico di disuguaglianze economiche e sociali – che la pandemia ha reso più visibili e fortemente accelerato – la crisi può essere affrontata con le grandi risorse finanziarie rese oggi disponibili grazie ad una situazione senza precedenti, con il nuovo ruolo extramonetario della Bce. Ma serve un cambiamento a livello sistemico, altrimenti la massa di denaro che pioverà su di noi potrebbe non fare la differenza e fallire gli obiettivi prefissati: quel benessere sociale, economico ed ecologico di cui tanto si parla. Su tale preoccupazione alcune riflessioni politiche possono essere utili per promuovere un confronto, con la cittadinanza attiva, i movimenti sociali, l’associazionismo, le tante voci della società civile sulla necessità  innanzitutto di aumentando il livello della democrazia sulle decisioni da prendere.

Tale promozione non ignora le controtendenze in atto, sia quelle autoritarie e di controllo sociale sia quelle legate alla svolta ‘tecnocratica’ messa in luce recentemente dalla vice-presidente della Camera Penale di Trieste, Alessandra Devetag (durante una assemblea del Comitato Rodotà per il Referendum su Sanità Pubblica). La giurista ha sottolineato come durante l’emergenza Covid sia venuto meno il bilanciamento dei diritti della cittadinanza, travolti al fine di preservare la salute – in un contesto in cui il profitto si è dimostrato ancora una volta più importante della salute: pensiamo al fatto che gli operai del settore armiero non hanno mai smesso di produrre durante l’emergenza, come se le armi fossero beni di prima necessità. Le restrizioni della libertà individuale si sono attuate invocando la ‘salute collettiva’ durante questa epidemia, mentre questo non è mai avvenuto per altre: nel 2016 sono state 179 mila le persone decedute per cancro, secondo il Registro Tumori;  ma non sono stati presi nemmeno blandi provvedimenti in termini di prevenzione primaria, ambientale e sociale. Già, sulla prevenzione non si guadagna.

L’attuale situazione contiene le potenzialità di inaugurare una fase di investimenti sociali ed ambientali importanti, che per realizzarsi non possono fare a meno di innescare grandi processi come la riconversione economica, e quella energetica verso le rinnovabili; nuove politiche fiscali, ambientali e orientate alla salute; forme di prelievo ad esempio sulle plastiche non riciclate, la tassazione delle emissioni aeree e navali – per contrastare seppur tardivamente inquinamento e cambiamento climatico in corso; ma anche imposte sui profitti delle società (incluse quelle della telefonia e del web), prelievi doganali per i beni non necessari. E finalmente una tassa patrimoniale – sempre accantonata con una certa codardia a livello statale, e ora improcrastinabile sul piano transnazionale.

L’autonomia anche fiscale dell’Europa può trovare, lo abbiamo visto, nemici interni nel suo stesso Parlamento: stati membri poco solidali, fautori dell’austerity 3.0, nazional-populisti e sovranisti-egoisti dai vari pedigree ai quali poco interessa che la sostenibilità sociale diventi una prerogativa su cui la Ue sia libera di investire efficacemente in tutti i paesi.

Nella Ue, con la caduta del divieto di finanziare col debito la spesa pubblica, ci troviamo davanti ad una situazione che ha bisogno di interventi di ampio respiro, che possono avere successo con la riduzione del potere di burocrazie, corruttele e mafie. Interventi che siano risolutivi anche rispetto a problemi di vecchia data (dalla disoccupazione al rilancio dell’agricoltura, dalla sanità al welfare) a patto che avvengano in controtendenza rispetto alle priorità dettate da un neoliberismo che – ora è sotto gli occhi di tutti/e – tanta responsabilità ha avuto nelle recenti stragi ospedaliere di persone malate e di personale medico e paramedico.  Nel clima di transizione generato dal Recovery Plan in termini di giustizia sociale, ecologica, sanitaria e digitale – come non pensare anche, parallelamente, alle necessarie forme di transizione industriale, alla riconversione produttiva, alla perequazione distributiva e alla equità fiscale?

Credo dovremmo anche allungare lo sguardo in maniera de-coloniale verso l’altra sponda del Mediterraneo, di cui l’Europa – ma soprattutto l’Italia – non può fare a meno, sia per questioni storico-economiche, che per la necessità di costruire inedite politiche migratorie dignitose, che rafforzino le esigenze reciproche di solidarietà sociale, e basate sull’idea di convivenzalasciandoci finalmente alle spalle un lessico coloniale top/down, che guarda ad entità ‘straniere’ da ‘assimilare’, ‘integrare’, ‘includere’ con una traiettoria di sguardo sempre dall’alto verso il basso.

E, guardando al di là del mare, dovremmo anche imparare da qualche ‘democrazia senza stato’, nata in territori difficili come il nord e l’est della Siria, cosa sia la vera coesistenza interetnica ed inter-religiosa, che sapore abbiano le politiche di genere capaci di raggiungere gli obiettivi – come quello strategico del double-chair system – un uomo e una donna per ogni posto di responsabilità, un obiettivo che qui non si è mai voluto proporre, in un contesto sdraiato sulle quote rosa e fallimentari pari opportunismi. Dagli uomini e dalle donne che in Rojava hanno combattuto finora contro Daesh e contro il fondamentalismo (lo hanno fatto anche per noi, riducendo la minaccia dello ‘stato islamico’ e del terrorismo nel nostro continente) possiamo apprendere i meccanismi del confederalismo democratico ed ecologico e  come si realizzano economie pienamente partecipate.

Nell’affrontare i nodi attuali della sostenibilità sociale  e i dilemmi delle scelte di contenuto e di metodo da effettuare in questa Europa, che si trova in una situazione senza precedenti, l’esperienza di Rojava ci insegna che anche nelle difficoltà delle emergenze, nelle carestie e nelle guerre, anche sotto i bombardamenti, la democrazia è il bene più grande. E ci dimostra che qualsiasi ‘buon fine’ si perde lungo il cammino, se non è già contenuto nei mezzi.

Laura  Corradi è Sociologa della Salute e dell’Ambiente, insegna Studi di Genere e Metodo Intersezionale

[i] McGuinn et al., Social Sustainability, Study for the Committee on Employment and Social Affairs, Policy Department for Economic, Scientific and Quality of Life Policies (DG Internal Policies) , European Parliament, Luxembourg, 2020.


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