Assassinio afro-americano. Tutti licenziati, ma nessuno in galera

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“Ehi amico, per te è facile sparare giudizi. Ti vieni dall’Europa, l’Italia, le belle città. Che ne sai della merda che c’è qui negli Usa? Che ne sai di questi bestioni negri che si ubriacano e con un pugno possono staccarti la testa? Non non lo puoi sapere e allora piantala di dire cazzate!”  Era la metà degli anni ’70, giravo in autostop negli Usa e tra un passaggio e l’altro, attaccavo bottone nei pub mentre mi rifocillavo. Questo tizio me lo ricordo bene. Era un uomo dall’aspetto dimesso, appollaiato al bancone con il suo bicchiere di birra. Avevo iniziato a parlargli della situazione degli stati del Sud (ero in Alabama) e delle differenze che notavo con la California, come il razzismo ancora diffuso. La sua reazione fu fulminea. Da affabile, diventò nervoso e mi si avvicinò urlando fino a poter sentire il puzzo del suo alito. Per lui non era razzismo, ma legittima difesa, perché i neri erano troppo grossi e tutti quei muscoli erano già una minaccia, da tenere sotto controllo al primo segnale di insubordinazione.

Mi è tornato alla mente questo fatto, alla notizia dell’assassinio dell’afro-americano soffocato in strada dalla polizia. E l’ho collegato al “pregiudizio della mole” che assilla il bianco medio negli Usa nei confronti dei neri, soprattutto nelle zone rurali. George Floyd era massiccio e il gruppo di poliziotti ha sentito subito l’esigenza di immobilizzarlo, schiacciarlo, soffocarlo. Tutti licenziati, ma nessuno in galera. Se invece fosse stato il nero a torcere un solo capello al poliziotto, sicuramente sarebbe stato giustiziato sull’asfalto.

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