Come il Coronavirus può rendere le imprese una facile preda delle mafie

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Si moltiplicano, in questi tempi di Coronavirus, i consigli di lettura. La mia preferenza va al libro, assai bello e interessante, di Sebastiano Ardita: “Cosa nostra S.p.A.”, edito da Paper First ( pg. 201 – e. 16). Lo segnalo prima di tutto per il suo valore anche letterario (la scrittura è davvero fluida e sempre avvincente), ma anche per un’indiretta e tuttavia importante riferibilità proprio ai problemi del Coronavirus che oggi ci affliggono.

E’ purtroppo sotto gli occhi di tutti che il Coronavirus, oltre ai danni alla qualità della vita e alla sicurezza delle persone, sta causando uno shock economico -finanziario di proporzioni devastanti, col quale le mafie sicuramente cercheranno di interagire.

I meccanismi coi quali ciò potrà avvenire ce li spiega bene (fin dal titolo e dalla copertina, che associano Cosa nostra al concetto di “S.p.A.” e ai “colletti bianchi”) il libro di Ardita, forte della sua esperienza di ottimo magistrato a lungo schierato con vari ruoli sul fronte antimafia e oggi Consigliere del CSM. I mafiosi infatti hanno, nel loro DNA di sciacalli, una speciale attitudine ad ingrassare sulla pelle degli altri.

Le sofferenze altrui sono per loro una vera manna, terreno fertile per consolidare il proprio potere. Ora, a causa dei guasti giganteschi del Coronavirus accadrà che tante attività economiche siano ridotte in ginocchio e debbano poi chiudere o fare una gran fatica a riprendere. Una preda facile per i mafiosi, pronti da sempre a vampirizzare le imprese che si trovino spolpate e senza denaro in cassa.
E queste nuove opportunità di investimento aperte alla mafia dal Coronavirus portano con sé il rischio che uno scenario economico già di per sé cupo e avvelenato possa persino tracimare in catastrofe. I meccanismi secondo cui ciò potrebbe inesorabilmente avvenire emergono con chiarezza esemplare dal libro di Ardita.

Esso infatti offre una lucida cornice interpretativa (riferita principalmente al “modello catanese”, sul contrasto del quale Ardita si è specializzato, ma facilmente estensibile anche alle altre declinazioni della mafia) di come l’enorme fatturato delle consorterie criminali sia confluito da tempo in una “economia parallela”, con guadagni giganteschi e andamento sempre in crescita, che facilmente potrà funzionare come  potente base di partenza per risucchiare nel gorgo mafioso commerci, imprese e forze economiche fiaccate dal Coronavirus. Sfruttando la tecnica della “mafia garbata” che “aleggia ai piedi dell’Etna da quarant’anni e forse più” e che poi “si espande anche al Nord e seduce”; creando – con la contingente ed opportunistica rinunzia alle armi –  una “pericolosa allarmante normalità”, sempre più “immersa dentro le questioni  economiche”.

Così da spalancare le porte ad un intreccio di interessi con la politica, l’amministrazione e l’imprenditoria che genera appoggi ed alleanze utili a tutti per un arricchimento sicuro, spregiudicato e rapido (il libro di Ardita è denso al riguardo di significativi esempi, concreti e dettagliati).

Questa trasversale, ma utile guida al monitoraggio del futuro prossimo legato all’emergenza Coronavirus, attraverso il racconto rigoroso e documentato delle esperienze passate, non è di certo l’unico pregio del libro. Altri, e sempre di notevole spessore, ve ne sono. Per esempio l’affresco della “vecchia” Catania che Ardita disegna con tratti suggestivi intrisi di una nostalgia dolce, legata…all’anagrafe ma non solo.

E poi l’ interessante analisi del “consenso” che Nitto Santapaola ed i mafiosi “catanisi” sapevano creare intorno a sé. O le pennellate forti con cui Ardita tratteggia figure centrali del suo racconto, come “i cavalieri del lavoro di Catania” e Mario Ciancio, imprenditore-editore di grande peso politico ed economico, proprietario di televisioni e di giornali (in particolare “La Sicilia” di Catania), fonte di un’informazione disposta ad avallare “la possibile natura passionale dell’omicidio di Giuseppe Fava” e a “dare eco a quanti dichiaravano che a Catania la Mafia non esiste”. Arrivando a rifiutare la pubblicazione di un necrologio della famiglia di Beppe Montana (catanese) in occasione del trigesimo del suo omicidio, “sul presupposto che contenesse la parola mafia”.

L’anomalo eccesso di grandi centri commerciali a Catania è ricostruito da Ardita senza trascurare il grave impatto ambientale di queste realizzazioni. Colpiscono le pagine incisive, a tratti accorate, dedicate alla “girandola delle decisioni” sulla sussistenza o meno di responsabilità penale, in particolare quando l’imputazione è di concorso esterno e perciò riguarda “colletti bianchi” della “zona grigia”; nonostante – sottolinea Ardita – il sostanziale, costante riconoscimento di fatti gravi nella loro incontestabile oggettività. Sicché la difformità di esiti, in generale contenuta entro limiti fisiologici, nei processi relativi a collusioni con la mafia appare spesso come un dato patologico.

Una girandola che sembra non aver mai fine, posto che mentre scrivo questa recensione giunge notizia che la Corte d’Appello di Catania ha annullato la confisca dei beni di Mario Ciancio (giornali e televisioni compresi) che il giudice di primo grado aveva invece disposto, vicenda di cui nel libro di Ardita ampiamente si parla.

Secondo la Corte, ferma la “contiguità”, manca la prova di un contributo del Ciancio all’organizzazione criminale. Ad esempio, la mancata pubblicazione del necrologio di Montana, secondo la Corte, non può essere considerata “contributo fattivo agli interessi di Cosa nostra, ma costituisce al più una manifestazione di contiguità e succubanza”. Diventa allora difficile non concordare con Ardita quando scrive (senza riferirsi a casi particolari) che “la diffusione delle complicità è così vasta che più che di concorso esterno varrebbe la pena di parlare di una mafia nascosta e diffusa”.

Da segnalare infine (omettendo per ragioni di spazio altre parti del libro ugualmente interessanti) le lucide riflessioni di Ardita su certe degenerazioni dell’Antimafia (non a caso definita anch’essa “S.p.A.”) ed in particolare sullo scandaloso e sconcertante “caso Montante”.

Per concludere con le vibranti parole di Ardita su come dovrebbe essere la vera Antimafia: “impegno per il ritorno alle regole, alla solidarietà, alla civiltà”“nulla a che fare con il corto circuito dell’invettiva e dell’ambizione personale”; anziché “urlare condanne moralistiche”, occorre “partire dalle responsabilità che ci riguardano in prima persona per aver taciuto o per non aver agito di fronte ad una questione sociale che sta all’origine delle questione criminale”.

Huffington Post, il blog di Gian Carlo Caselli


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