“Parole non pietre”, l’adesione di GiULiA: Il linguaggio dell’odio ferisce la corretta informazione

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Il linguaggio dell’odio ferisce la corretta informazione. Il linguaggio dell’odio ferisce le donne. Sono purtroppo le principali vittime insieme ai migranti, insieme agli ebrei, ai musulmani, ai rom.
E quando è una donna, una giornalista, a raccontare la realtà delle migrazioni, a dar conto degli atti di razzismo o dei femminicidi, l’hate speech contro di lei si alza di troppi decibel, a frenare il suo lavoro, di fatto a censurarlo.

Lo sappiamo per esperienza: il soccorso che può dare la redazione, la direzione, in questi casi è proporre alla giornalista di lasciare l’incarico, di occuparsi di altri temi meno esposti. Lo sappiamo per esperienza, anche nei casi più gravi: le colleghe non si lasciano sopraffare, restano “sul pezzo”, non accettano la censura dell’odio.

È vero: le parole sono pietre e devono servire a costruire muri, ma troppo spesso le parole d’odio oggi schiacciano come lapidazioni. E per affrontare il fenomeno, bisogna conoscerlo.

Fin qui abbiamo raccolto le testimonianze di giornaliste che si sono trovate inaspettatamente sotto il fuoco dell’odio, giornaliste come Angela Caponnetto, Monica Napoli, Antonella Napoli, Federica Angeli, Stefania Lapenna, Sara Lucaroni, che hanno denunciato pubblicamente quanto sia gravoso continuare il proprio lavoro, magari in condizioni oggettivamente difficili, perseguitate anche dalla pressione psicologica degli insulti. A volte tremendi. Violenti. Disgustosi.

Ma come associazione di giornaliste GiULiA, insieme all’Osservatorio per i diritti Vox (che ogni anno stila la “mappa dell’intolleranza”), e con l’ausilio di ricercatori universitari, abbiamo deciso di andare oltre, promuovendo un progetto di analisi comparata sui social tra l’informazione dei nostri giornali e i commenti di colleghe e colleghi autorevoli con la reazione d’odio della rete.

Del resto gli ultimi dati raccolti da Vox – in particolare nel periodo delle minacce ricevute dalla senatrice Liliana Segre e dell’istituzione della sua scorta – ci raccontano che sono di nuovo le donne le maggiori vittime del linguaggio d’odio (il 39% dei tweet d’odio, con una altissima dose di aggressività soprattutto in concomitanza con femminicidi), ma ci indicano anche e soprattutto picchi di antisemitismo sconosciuti finora nel nostro Paese, con l’utilizzo di stereotipi e fake news (nella rilevazione di novembre- dicembre il 24, 81% dei tweet negativi rispetto al 10,01% dei mesi precedenti e rispetto soprattutto allo 0,5% del 2015).

Cosa possiamo fare noi giornaliste e giornalisti? Basta “passare oltre”? Non più. Dobbiamo denunciare, rispondere all’odio con l’argomentazione dei fatti, alle fake news con la realtà.
Sappiamo farlo: le parole sono il nostro strumento di lavoro. E se non sassi, sono sempre state piombo.

Silvia Garambois – presidente associazione GiULiA giornaliste


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